Immagini sfocate

Creato il 12 marzo 2013 da Davideciaccia @FailCaffe

Sei mesi a Copenhagen, lontana da un sacco di cose eppure così vicina. Antonella tira fuori qualcuno dei suoi ricordi per raccontare il tempo immobile della capitale danese ed i piccoli piaceri di una città bianca

Ormai è trascorso più di un mese dal mio ritorno, non posso fare più da erasmus-inviata speciale. I resoconti a mente lucida e col cuore lontano sembra siano più oggettivi, ma forse anche più noiosi. Così ci proverò per immagini.

Sono una pessima fotografa e a chiunque mi tedi per far foto io rispondo romanticamente: “le immagini che meritano di esser riviste sono impresse nella mia mente”. In realtà è solo la conseguenza di un trauma infantile, legato alle infinite ore di attesa che mio padre faceva sorbire all’intera famiglia pur di cogliere lo scorcio più bello e che fosse in armonia con le espressioni di ogni singolo componente della famiglia.

E così, di ritorno da un viaggio,  mi dilungo sempre in infinite descrizioni, le classiche pagine che spesso nei romanzi vengono saltate;  ma la trama si coglie anche da lì e la nostalgia prende la forma di un fiocco di neve, di quelli ben disegnati, che scende lentamente e non infastidisce, prima che il freddo prenda il sopravvento, proprio come a Copenhagen.

Domenica mattina, non ci sono tende a impedire che il timidissimo sole entri dalle finestre. Le pareti sono bianche, così come i mobili e qualsiasi altro arredo, bisogna carpire più luce possibile e poi chi l’ha detto che il bianco è sterile? Loro dicono invece sia hygge, un vocabolo intraducibile che vuole esprimere la familiarità, il sentirsi a casa anche in un posto che non lo è.

Ritornando alla domenica, appena sveglia, senza uscire dalle coperte, mi affaccio come ogni mattina ai grandi finestroni:  su una strada di solito abbastanza affollata ma mai chiassosa, piena sempre di biciclette scorrazzanti; quella domenica tutto era fermo e allo stesso tempo tutto perfetto, la radio l’aveva annunciato, ma io non l’avevo colto. Una delle più grandi tempeste di neve degli ultimi dieci anni.

Tutti sembravano aspettare, ma senza l’ansia di dover fare, tutto dentro era immobile; fuori invece danze, piroette, soffi,  corse, spifferi e ripensamenti, tutto era vita; dentro c’era attesa, ma non spasmodica, per una volta si poteva fare nulla. Un non fare deciso da qualcun altro, ma con la consapevolezza di condividerlo con tutti, almeno sull’isoletta felice dello Sjælland. Ammetto forse io di aver esagerato, avrò trascorso almeno una mezza dozzina di ore senza far nulla, se non con le guance attaccate alla finestra, con una tazza di cioccolata calda in mano, chiacchierando sul quel famoso nulla e guardando lontano, nei vorticini nevosi e un po’ più in là.

Appena arrivata in città, ci sono finita girovagando per caso; se scrivendo “a folla”, lo capissero tutti, lo farei. Fin dalla prima volta in cui ci sono capitata, avevo deciso che sarebbe stato il mio posto preferito. Non c’è stato bisogno di nessun conflitto interiore in cui una parte di me deve convincere un’altra Antonella che le prime impressioni spesso mentono. E’ rimasto il mio posto preferito e poche ore prima di prendere l’aereo è stato l’ultimo posto in cui sono stata.

Il centro di Copenhagen, come se fosse un grande e ricco castello circondato da un fossato, è delimitato da lunghi laghi artificiali che segnano quasi tutto il perimetro. Ma il fossato non è un unico e continuo corso d’acqua, i laghi sono tre e sono separati l’uno dall’altro da qualche casetta rossiccia.

Il mio preferito è il Peblinge Sø, e non potrebbe essere altrimenti. Certo, il tempo di autonomia per partecipare alla magia del luogo, è davvero limitato a causa del vento e del freddo che ti punge gli occhi, ma anche se brevi, sono stati proprio dei bei momenti.

Il lago è per tutto l’inverno ghiacciato ed è bianchissimo e luminoso, ma non è la cosa più bella; ciò che più mi piace erano gli alberi che costeggiavano tutto il lago e attraverso cui si intravedono una lunga fila di casette, l’una diversa dall’altra, non troppo alte, ognuna con dei piccoli giardini che promettono chissà quale saporito barbecue estivo.

Una sera poi, sfidando il freddo, ho acuito il mio sguardo e ho osservato per un po’. Se proprio facevi attenzione, si vedeva persino dentro le casette: la sola luce delle candele, perché i danesi di sera usano far così, disegnava volti sconosciuti che chiacchieravano tra loro, e sembrava che tutti dicessero cose interessanti e che fossero tutti d’accordo. Forse era il profumo del lago a renderli così.

La percezione di tutti i non-Copenhagers e anche mia dopo averci vissuto per un po’, è che la città della Sirenetta triste è davvero silenziosa: pur essendo un grande porto, una capitale con quasi un milione e duecento abitanti, c’è un insolito silenzio, quasi a rispetto della ricercata tranquillità di cui tutti i danesi sono portatori sani. Forse solo i venerdì notte sono una dolorosa frattura nella serafica città, ma bisogna addentrarsi nei pubs perché si sentano i risultati delle onnipresenti e numerosissime Carlsberg e Tuborg buttate giù.

Bene, in questa boccia di vetro mossa ogni tanto per agitar la neve, c’è un quartiere che sembra abbia raccolto tutta  l’energia che il resto della città ha voluto placare: Nørrebro.

A dirla tutta, sono quasi 4 chilometri quadrati che si diramano intorno ad un’arteria pulsante, come fossero piccole vene che da Nørrebrogade, la via principale (che poi è il proseguimento del ponte che taglia in due il mio amato lago), scorrono verso fuori,  diffondendo l’energia vitale dal centro verso l’esterno, fino poi a perderla quasi del tutto, sfociando nella placida Copenhagen circostante.

E’ tutta colorata, satura di palazzotti vivaci e negozietti curiosi, mi pare di ricordare che persino il manto stradale è di un colore diverso: sembra un patchwork di stoffe messe l’uno accanto all’altra un po’ a caso.

E’ la zona multietnica, dove ho comprato la mia bicicletta di seconda mano; dove ho mangiato, dopo mesi di sofferta astinenza, un ottimo slice of Foccacia; dove ho assaporato il più buon kebab della mia breve vita e dove spesso e volentieri mi trovavo a passeggiare e a trascinare chiunque malauguratamente seguisse le lucine della mia bici. Qui i bambini urlano e la gente alza la voce per sentirsi, ma pur sempre qui gli autobus spaccano il secondo e ci sono i biondi che sfrecciano a cavallo delle loro biciclette.

E poi a Nørrebro succedono cose strane, dopo aver aspettato che spiovesse in una casa completa di tutto ma disabitata e di cui i miei coinquilini, non si sa bene perché, possedevano le chiavi; un signore mai visto prima, mi ha offerto una squisita farinata di ceci e, riscaldati da un fuoco di strada, mi raccontava dei suoi dei persi e poi ritrovati.

Mi sa che l’ho presa un po’ per le lunghe, forse meglio le foto di mio padre.

Antonella


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