Con Edogawa si va anche oltre, perché le sue non sono storie per tutti, e quando allo sguardo atipico dello scrittore si somma lo sguardo altrettanto atipico del regista di turno il risultato non può che essere qualcosa di davvero insolito. Nel bene e nel male. “Imomushi” (芋虫 , in italiano "Il bruco") ha ispirato non solo un film di Koji Wakamatsu, ma anche una graphic novel di Suehiro Maruo, che però sono tanto diversi nello svolgimento e negli intenti da poter essere considerati a tutti gli effetti due storie distinte. Il vero punto in comune, incipit a parte, è che entrambi propongono una riflessione sull'animo umano che vira nel pessimismo più nero.
Partiamo allora dal riferimento letterario, “Imomushi”, la storia che il padre della crime story giapponese scrisse nel 1929 e che è reperibile in inglese nella raccolta “Japanese Tales of mistery and imagination” e in italiano nel volume “L'inferno degli specchi” della collana Urania. “Imomushi” (analogia crudele ma realistica) è il tenente Sunaga, un reduce della guerra russo-giapponese che conduce una misera vita a fianco della moglie in un paesino del Giappone rurale.
Le ferite riportate in Siberia lo hanno ridotto un cadavere vivente: orribilmente sfigurato e senza più gambe né braccia, bramosamente teso a soddisfare i suoi bisogni primari, nella mente di sua moglie Tokiko assume le sembianze di un grasso, giallo bruco.
Sunaga materializza i nostri incubi e paure, quelli che ci assalgono nel nostro intimo quando proviamo ad immaginare quanto di peggio potrebbe riservarci la vita, e allo stesso tempo ci costringe a prendere atto del nostro innato voyeurismo, senza il quale la pietà ci costringerebbe senz’altro a chiudere gli occhi davanti alla sua disgrazia. Centrale è però la figura di sua moglie e il rapporto molto particolare, una sorta di dipendenza sessuale ai limiti del sadomasochismo, che con lei si instaura. Proprio quando Sunaga perde ogni attrattiva come uomo, o peggio, in un certo senso si disumanizza, la sua vita sessuale con la moglie raggiunge l’apice. Da questo deriva l’unico elemento fantastico, se mi passate il termine, di una storia altrimenti fin troppo cruda e realistica. In teoria non c’è nulla di eccezionale nella vicenda di un uomo che, privato di tutto il resto, si aggrappa agli unici piaceri di cui può ancora fruire, che possono ancora farlo sentire vivo: il cibo, ma soprattutto il sesso. Eccezionale, casomai, è che la moglie imprevedibilmente sembri travolta dal desiderio quanto Sunaga, se non di più, tanto che i rapporti sessuali diventano parte della sua routine quotidiana al pari dell’imboccare e lavare il marito. Dopo l’assegnazione di una medaglia e una pensione, Sunaga è stato dimenticato da tutti ad eccezione di Washio, che era il suo superiore e che Tokiko mal sopporta.
Mi pare che ci si soffermi spesso sulle sofferenze di Tokiko e molto meno su quelle di Sunaga, quasi come se per lei occuparsi del marito così orrendamente mutilato, e farci l’amore, sia un’esperienza orribile, e non sia altrettanto sgradevole, per lui, essere imboccato, lavato e vestito come un neonato, e spostato e maneggiato contro la sua volontà.
La donna si chiede se la sua voracità sessuale derivi da semplice lussuria o da una vera e propria perversione, e riconosce dentro di sé le tracce di un sonnecchiante istinto prevaricatore, di un lato oscuro di cui è sempre stata vagamente consapevole e che la spinge ad approfittarsi dei più deboli. Avere il marito alla sua totale mercé è terribile ed eccitante, croce e delizia insieme, e la donna ne trae un piacere che non è mero godimento sessuale, ma somiglia molto di più al piacere che il carceriere ottiene nel tormentare la propria vittima.
Eppure né con il sesso, né con le lusinghe e i tormenti quotidiani lei riesce a possederlo completamente, talvolta lui si estranea entrando in territori dove Tokiko non può seguirlo, con il solo sguardo lui sembra riuscire a sfuggirle e a rivolgerle allo stesso tempo muti rimproveri. Per tutti questi motivi il sesso fra di loro non solo è senza amore, ma anche senza gioia e senza speranza ed è chiaro che la vicenda, già terribile, non potrà che avere un epilogo ancora più tragico.
Forse non c'era altra fine possibile, forse una prova del genere sarebbe stata troppo per chiunque, tanto più se si considera che all'epoca i matrimoni si fondavano più che altro sulla convenienza sociale e poi la vita non dava ai coniugi molte occasioni di accrescere l'intimità - non le migliori premesse possibili. A Edogawa però, come sempre, non interessa tanto fare analisi sociologiche quando mettere individui eccezionali (nel senso di peculiari) alle prese con circostanze eccezionali e poi restare a guardare: prima o poi qualcosa di oscuro accade. È lecito quindi pensare che le mani di Tokiko siano lo strumento del fato, più che della sua cattiveria.
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