Impressioni

Creato il 04 luglio 2014 da Thefreak @TheFreak_ITA

È la luce calda del giorno che finisce su Roma, in una delle sue estati.

Il colore caldo dei raggi si perde sul bianco candido della pietra, sul davanzale del Pincio che si affaccia in Piazza del Popolo. È un altro tramonto.
Un tizio sta seduto su uno sgabello minuscolo. Ha una mano grande con cui pizzica le corde sbagliate di una chitarra acustica, rivisitando un medley dei Gipsy Kings in maniera del tutto personale. È un uomo non più troppo giovane, ha i capelli arruffati e un paio di jeans larghi e strappati, suona ad occhi chiusi, il capo inclinato su un lato e il labbro inferiore stretto tra i denti. Una bambina di pochi anni gli ronza intorno, ignorata dai genitori. Ha pochi ricci in testa e sorrisi euforici che mostrano bene i dentini appena spuntati.
È lei che con passi ancora instabili si avvicina all’uomo per strillargli qualcosa di poco comprensibile e poi scappa via ridendo.
Lui la ignora del tutto. Concentrato sulle note stonate della sua chitarra.
Lei, divertita, continua a trotterellargli intorno.
Preparo la mia Canon e la metto bene a fuoco.
L’obiettivo segue la bambina attratta dal cestino di paglia ai piedi dell’uomo, mentre si piega in avanti restando faticosamente equilibrio e poi intrufola le piccole dita tra le monete. Scatto.
È quello l’attimo che non mi lascio scappare, li catturo entrambi, il musicista strampalato con l’aria dell’artista bruciato, le palpebre ancora chiuse, e la bambina dagli occhi furbi e accesi, nell’atto del furto, che un istante dopo si è già rifugiata dietro le gambe dei genitori. Grattacieli abbastanza alti per nascondersi dal mondo. Strutture perfette da cui poter sbirciare fuori senza essere visti. Solo a vederla mi viene in mente che devo essermi sentita anche io così, protetta in qualche modo da quello che non conoscevo e mi faceva paura.
Il suo viso si appoggia alle ginocchia della madre e le braccia piccole si stringono intorno alle gambe. Le scatto un’altra foto.
Sì, me la ricordo questa sensazione. Ha contorni sfocati, come quei vecchi fotogrammi sviluppati male. È il ricordo di affetti radicati che si sviluppano in un luogo e un tempo ormai trascorso. È il ricordo di casa.
Controllo gli ultimi due scatti. Poi me ne vado.
Scendo le scalinate che portano a Piazza del Popolo. Il giorno regala le sue ultime luci.

Ho lasciato per sempre il posto in cui sono nata e cresciuta.
Quella terra sempre gravida e in attesa di scoppiare, il verde così acceso della vegetazione cresciuta senza una regola, gli spazi infiniti, il cielo di una luminosità che non ho più ritrovato.
La campagna umbra è schiva, come le persone che la abitano, non la puoi bloccare in un’immagine, perché ti perderesti gli odori che porta con sé il vento, come quello dell’erba appena tagliata e dell’arrosto e del fumo di legna bruciata.
Ti perderesti l’incredibile silenzio che si stende su ogni superficie, come in una continua preghiera. Il silenzio e il vento e il canto dei grilli nelle sere d’estate.
Il chiarore delle lucciole nei campi di grano maturo. Loro si fidano, si fanno acchiappare.
I paesi sono piccoli, le strade le hai percorse milioni e milioni di volte.
Tutto si lascia conoscere nei dettagli più minimi.
Ogni cosa ti rassicura.
È una terra che ti raccoglie nel grembo materno delle sue colline, che ti stringe a sé soffocandoti dal troppo amore. Una campana di vetro dai confini troppo ridotti.
Il bisogno di andarsene si moltiplica e diventa impellente.
Spazi troppo ampi e nessun posto che sia giusto per te.
Lì la mia Canon non funziona. Non funziono io, che questa terra non la so raccontare.
Così come ho provato diverse volte a fotografare le mani di mio nonno, bruciate dal sole in anni e anni di lavoro nei campi. I primi scatti attenti e misurati, quelli dopo accalcati l’uno sull’altro e miscelati all’insofferenza. Il risultato era sempre insoddisfacente. Mancava qualcosa.
Non ero capace.
L’immagine è un’immagine e basta. Ogni scatto denuncia la vita. I gesti si congelano nell’atto in cui scoprono moti interiori che emergono, ma non puoi trasformare la realtà e fare in modo che gli altri la vedono come vuoi tu.
Così le mani di mio nonno per me erano mani infinite, che si allungavano come radici partendo da un tempo lontanissimo fino ad arrivare a me, al mio viso.
Riuscire a fotografarle era impossibile.

Roma, invece, si lascia leggere. La attraverso tutta questa città, le mie foto sono impressioni liberate dal colore. Non mi serve nessuna tinta.
Succhio via qualunque elemento che possa distrarre l’occhio, lascio che tutto si concentri su quell’attimo di vita raccolto, per strada, per sbaglio.
Certi scatti sono come momenti su cui avrei potuto inciampare, ti si presentano davanti apposta per essere raccolti. Come quella donna che fa l’uncinetto in autobus con un basco di lana in testa e l’espressione impassibile di chi sta lontana anni luce dal mondo.
Le immagini di questa città graffiano in mille modi.
Sono bellezze mutevoli. Geometrie varabili spiate nei movimenti di sconosciuti.
Esistono immagini di Roma che nascono per restare nascoste, incrostate nel fondo dell’attenzione, persino della bellezza. Vivono nel silenzio e alla penombra, ma il sole che brucia forte in questa città complica tutto. Così come la mendicante fotografata a San Pietro, respinta dall’indifferenza di un gruppetto di anziani in pellegrinaggio, che ammutoliti si guardano tra loro. Si chiama Elide, vestita di stracci e buste di plastica, ha i capelli più neri e lunghi che abbia mai visto. Quando si accorge che la sto fotografando si mette dritta, in posa, con le mani unite dietro la schiena. Poi mi ha chiede se ho degli spicci.
Roma di notte ha un vestito nuovo. È la città arancione delle luci che si riflettono sul Tevere. È la città delle voci che si mischiano tutte in un rumore solo, tra i vicoli di Trastevere, nel tintinnio delle bottiglie e dei bicchieri di vetro. Ognuno ha qualcosa su cui bere sopra, una nostalgia sottile da scavalcare con una rincorsa e un bel salto.
Sono le ore che passo in Piazza Trilussa, alla ricerca dei momenti che si mimetizzano tra la folla. Due ragazze si bisbigliano qualcosa all’orecchio. Una ha il braccio intorno al collo dell’altra, la tira a sé, vicina. È lo scambio di un segreto, o di una bugia.
Sui marciapiedi e sugli scalini sporchi e affollati le persone si siedono e si incontrano.
Parlano per una sera.
I miei scatti sono rapidi e studiati. Resto inosservata ed è proprio questo che amo di questa città.
Non sei solo nel caos che naviga per le strade, percorri una via che si affaccia sulle vite degli altri, tutto è pura potenza. Non ci sono confini che non potrai oltrepassate.

FINE

Di Alessia Rosati.


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