Lei d'istinto ritrasse la mano, come se non fosse stato il corpo di quello stesso gatto che già aveva toccato, accarezzato, forse baciato centinaia di volte, ritrasse quella mano come le si fossero spalancate davanti le fauci di un terribile predatore pronto a ghermirla, eppure quel corpo, quel corpicino, non era pur sempre quello stesso, adorato, gatto?Trattenne un grido, lei. Lo trattenne anche per retropensiero, sempre per onorare il sacro dovere casalingo: non era ancora ora di svegliare il marito. Avesse trovato quel gatto in una radura nel bel mezzo del bosco, avrebbe gridato, gridato eccome, e forse si sarebbe messa a correre senza meta, in una direzione qualsiasi. Non dorme nei boschi, suo marito. E i suoi figli? D'accordo, forse non era proprio il caso di regalare loro un simile risveglio. Erano ancora così piccoli, poi. La morte la si poteva, forse la si doveva ancora nascondere loro. Neppure i figli, dormivano nel bosco. Era quindi il caso di agire. Subito.Ma il gatto non accennava a volersi staccare da quel tappetino da due soldi e mezzo. Era proprio come quando, spesso, lo ritrovava nell'accanita lotta contro ad una qualche preda inanimata, un oggetto che spesso gli era proibito toccare e lei, trovandoli coinvolti in una lotta all'ultimo sangue, sollevandone uno si trascinava dietro anche l'altro, trattenuto, agganciato ostinatamente da quei suoi artigli, agganciati da un'invisibile calamita, provandone poi l'impressione che anche quell'oggetto non volesse lasciar perdere, che la questione anche lui, ingiustamente aggredito, ci tenesse a risolverla dignitosamente, giunto a quel punto; o l'immagine di un pugile suonato che non ha più forza per fare altro che cercare d'annullare ogni distanza, ed il suo rivale non può che abbracciarlo, e quelli restano in piedi fino alla fine. Quell'oggetto insomma così impegnato in quella battaglia sembrava allora voler difendere il proprio orgoglio, il proprio nome segreto, che nessuno gli aveva mai assegnato.Così lei sollevò entrambi: il tappetino, incollato al pelo di Mukil – che lui un nome l'aveva, gliel'avevano dato – sospeso a mezz'aria, tenuto per una zampetta stretta in pugno mentre con l'altra mano gli strappava il tappetino di dosso, centimetro per centimetro, senza la secca determinazione di quelli che vi strappano via un cerotto con grande rapidità mentendo, assicurandovi che non sentirete male, ma lentamente, nel tentativo di preservare quanto possibile quella pelliccia di cui osservava piccoli strati staccarsi finendo incollati a quell'oggetto, batuffoli di pelo fluttuanti, il tutto accompagnato, come sottofondo, da un suono che le evocò una strana visione, in un baleno, inattesa: lei, al centro della radura, col suo gatto in pugno e, lontano, lontano, fuori dal bosco, dal mondo, laggiù, nella nebbiosa città, crepitare di raffiche di molti mitra.Compiva quest'operazione, altra cosa curiosa a dirsi, con l'istinto condizionato di far bene attenzione a non spezzare una zampa al povero Mukil. Sempre tenendolo per quell'arto lo condusse, penzolante, fino alla cucina, dove, dopo un breve attimo di esitazione, lo calò nel sacco dei rifiuti organici, luogo che il gatto in questione non disdegnava certo di frequentare in altri, ben più felici momenti.