Quella mano un po' molle, o diciamo formale, o meglio ancora, mattutina, sulla spalla, fu come la visione del sangue sul ginocchio sbucciato per un bambino che non si è nemmeno accorto d'averlo strisciato per terra: altro non le sembrò che l'ufficializzazione della notizia, prima ancora prigioniera di un limbo di veglia perlomeno semi-lucida: una lacrima sgorgò. Si passò velocemente il dorso della mano sulla guancia inumidita e, con l'occhio professionale della casalinga, sempre attenta alle cose fuori posto, scorse immediatamente una macchia sul davanzale della finestra. Un liquido raggrumato brunastro. Istintivamente lo toccò e si portò il dito alla lingua. Si scioglieva in bocca, come miele, ma sembrava del tutto insapore.
Presero parte senza entusiasmo alla colazione, inquietamente, quel mattino, i due bambini. Perché non c'era Mukil e mamma non sapeva fornire una spiegazione adatta a giustificare quell'assenza così angosciante, per il motivo che non aveva avuto il tempo di concordarne una con il marito, al quale aveva avuto solo modo di far capire che la verità di certo non doveva essere neppure ventilata. Temporeggiava, irrequieta. Sudava. Non era da lei tacere riguardo a quelle cose che giudicava potessero essere educative per i suoi figli, là, seduti a tavola, tristi, spalle alla porta finestra a lato della quale stavano ramazze, scope e quant'altro, e tra questi il sacco della spazzatura lasciato, ammettiamolo, colpevolmente aperto. Per quanto sia scusabilissima, la signora, che sappiamo essere scossa, dolente e dolorante, non è cosa, certo, da farsi in generale, quella di lasciare il contenitore della spazzatura spalancato, ma è soprattutto grave in questo caso, dacché una cosa spuntava da quel sacco, anzi, non una cosa: una coda. Eccolo, tra i piumini, Mukil.Stasera, dopo cena, esclamò, finalmente, al colmo della tensione, Io e papà vi diremo di Mukil. Vedrete. Saprete.La comunicazione, così insolita, invece di calmarli sembrò agitarli ancora di più: la mamma aveva sempre saputo cosa dire, cosa succedeva, stavolta? Cosa ci si doveva aspettare? E non smisero di guardarsi negli occhi sbarrati, con la bocca aperta, la loro mente andò a ritroso, a ripescare nella memoria quelle poche occasioni in cui mamma e papà si erano riuniti per comunicar loro qualcosa. Era sempre qualcosa di spiacevole. Si sforzarono di rievocare almeno un precedente felice. Alla bambina scese una lacrimuccia. La madre la vide e si trattenne dal riprenderla con asprezza. Non perché sospettasse che la bambina avesse intuito la verità, ma per il semplice fatto che avesse pensato al peggio, il peggio che quella bambina pescava sempre, d'obbligo, fra le infinite possibili opzioni, così, per carattere, e chissà perché. Chissà da chi aveva preso. Era una cosa che la faceva terribilmente innervosire.Ora ci sentiremmo, se potessimo, di fare una domanda, a questa donna: perché, se ti è ormai chiaro che tua figlia ha capito che il vostro povero gattino è morto, perché non lo ammetti e basta? Perché? Siamo lì, ad un passo. E' proprio quello che sa che si dovrà sentir dire da te. Abbracciali e diglielo. Passerà tutta la giornata, lei, e poi, più tardi anche lui, il maschietto, quando avrà finito per scartare tutte le altre improbabili probabilità, tutte cose che gli sarebbero state dette senza tante storie, tutta la giornata, fino alla cena, che consumeranno male, agitati, di fretta, per giungere prima possibile al momento della scintillante, fantastica rivelazione. La bugia che gli avrai imbandito. Diglielo. E' giusto.Quando lei era piccola, succedeva. Ne morivano, di animali. Era fitto di creature pelose, piumate, striscianti, là dove abitava, bambina. Ed anche lei piangeva, disperatamente, ogni volta che le veniva detto che uno di quei suoi amici era morto o era lei stessa a trovarlo esanime. Ma era un orrore meno spaventoso, perché l'uomo nero nascosto nell'armadio fa più paura di quello che ti ritrovi davanti, in una piazza gremita. E' una paura di cui non rimani prigioniero. Allora si celebravano piccoli funerali, ed era bello, un vero rito, e partecipavano tutti, e l'animale veniva sepolto nel piccolo cimitero appositamente creato per loro, in un angolo lontano dell'enorme verde che circondava la sua casa, e poi, a sera, si rientrava, e sì, era triste, era tanto triste comunque, ma aveva un senso, e ognuno sentiva di far parte di uno schema in cui tutte le cose sono giuste. E dunque? Se tu avessi oggi un pezzo di terra dove seppellire Mukil, un rito da celebrare; se tu avessi altri gatti da dare ai tuoi figli, ora, glielo diresti, che è morto?