Nel frattempo, in cucina, l'intruso, seduto a tavola, era intento a confezionare dei pacchettini. Il topolino vomitava sul tavolo quel liquido brunastro e lui ne ricavava delle dosi che avvolgeva poi nell'interno di uno strano materiale lucido, dotato di un piccolo foro. Dopo averne preparati un paio, accarezzato grato il dorso del topo ed esserselo rimesso nel taschino della camicia, si spostò davanti al rubinetto della cucina, ne svitò il diffusore e v'infilò uno di quei piccoli involti. Poi richiuse. Provò a far scorrere un po' d'acqua, vide che tutto funzionava a dovere e si avviò verso il bagno, dove avrebbe dovuto ripetere la stessa operazione con il lavandino di quella stanza. Ma non gli riusci di riavvitare il diffusore e rimase perplesso e preoccupato a rimirare il lavandino. Il topolino tirò fuori la testa dalla tasca, guardò con interesse professionale prima l'intruso e poi il lavandino, poi l'intruso e poi il lavandino. Ed ecco che, finalmente illuminato, squittì qualcosa che doveva essere particolarmente significativo, a quanto pare. Difatti l'uomo parve immediatamente capire qual era il problema, schiarito dal consiglio dell'amico, e con la punta d'un paio di forbicette per unghie, che trovò lì, grattò via il calcare che s'era sedimentato proprio sul filo dell'avvitatura. Fatto questo, riavvitò il pezzo dopo averci nascosto il solito involto senza problemi. L'acqua scorreva bene. Accarezzò il taschino e sparì anche lui, nella notte.
Poi, di nuovo, certo non inattesa, l'alba, il nuovo giorno.Rientrò per prima, in bagno, come sempre. Si era risvegliata con una parola in testa: Mukil. Ed un senso di peso, grave, una stretta che la prendeva allo stomaco, una sensazione pari a quelle che si provano dopo aver preso un colpo, un pugno, quando sentiamo il nostro corpo dolente ritrarsi, stringersi davanti ad un pericolo che ci minaccia, ci sovrasta, potenzialmente letale, ingiusto. L'assenza del tappetino. Il bagno più pulito del solito. Un profumo di buono, di detersivi, di chimici campi fioriti. L'odore dell'inverno, del cielo bianco prima della neve. Morte. Tutto morte. Perfino il rubinetto, che, improvvisamente e chissà perché, funzionava, ora, funzionava a meraviglia, alla faccia sua che continuava ad insistere col marito affinché chiamasse un idraulico e lui che rispondeva imperterrito: Non serve/Non è nulla/Lo posso riparare io in due secondi. Ed i sei mesi in mezzo che nel frattempo erano passati. E quello s'era sistemato, così, da solo, nella notte, nella prima notte senza il gatto in casa. No, forse il marito l'aveva aggiustato davvero. Ma quando? No, ieri no, non è possibile, ieri mattina – pensava – ho spruzzato il gatto a causa del lavandino rotto, poi lui non ha mai avuto il tempo necessario. Anche se gli fossero bastati davvero solo due secondi, come asseriva. Sono più o meno di un attimo, più o meno di un istante, d'un lampo? C'è un momento, un momento preciso, in cui le cose si rompono, in cui si aggiustano? La malattia che ti porta alla morte, che ti trascini dietro per anni, è iniziata in un attimo, un attimo preciso. Se ci fosse la possibilità si potrebbe trascrivere la data e l'ora in cui una trave concepisce quell'orrido progetto che porterà infine tutta la casa a crollare. Due secondi. Quanto tempo è? Qual è l'attimo in cui ci siamo persi qualcosa? Qual è quell'attimo in cui ci siamo tutti distratti, e cosa è successo allora? Quanto tempo sono due secondi? Sono abbastanza, sono sufficienti, o non esisterebbero. Sono abbastanza per vivere, ammalarsi, guarire, morire. Moltissimo tempo.Da notte in bianco le si rivelò la faccia bluastra e deformata, che riflessa nell'impeccabile piastrella, l'osservava attonita e scandalizzata.