La risposta chiaramente è niente.
Il punto di vista è quello delle persone comuni che hanno assistito alla tragedia in tempo reale, tra euforia del momento e crudeltà del crimine. Comincia da Dallas “Parkland”, dall’arrivo di Kennedy nella cittadina e dal fervore degli abitanti nel vederlo passare per la via con la sua limousine. Poi l’attentato, i medici dell’ospedale chiamati a evitare il peggio, infine la disperazione comune di chi non è riuscito a compiere il miracolo e di chi fatica a credere all’episodio.
Ma stranamente Landesman riesce in un impresa più ardua, inverosimile: fa dimenticare totalmente l’inutilità della sua operazione con un uso di retorica esageratamente stucchevole e di stampo romanzesco-casalingo. Trasforma la sua pellicola in un trattato patriottico, dove ogni personaggio ha il suo momento drammatico in cui esprimere disperazione e l'arringa di un discorsetto ad effetto prevedibile e costruito per commuovere. Ci tiene a mantenere la coralità del cast, ad esaltare l’attaccamento di un popolo alla nazione, restando talmente aggrappato a questi scialbi elementi da lasciarsi sfuggire, forse, quello più interessante che avrebbe potuto quantomeno farlo cadere in piedi.
Poteva battere altre strade quindi "Parkland" e invece procede verso la sua fissazione, cerca la tristezza e i pianti di chi ha filmato un evento che vorrebbe dimenticare, di chi è convinto che avrebbe potuto sventare la tragedia, di chi ce l'ha messa tutta e non ha potuto, somigliando sempre di più ad un lavoro televisivo di categoria medio-bassa e ordinato magari per celebrare un avvenimento che ha realmente sconvolto un popolo e una nazione. In maniera sentita però, non così terribilmente impostata.
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