Non è un caso allora se “Under The Skin” fa di questa abitudine il suo slogan migliore, partendo dalle basi e scegliendo la bellezza per eccellenza di Scarlett Johansson, inserendola in veste di alieno sul pianeta terra e concedendogli l’opportunità di osservare tanto (comportamenti, usi e costumi) ma di parlare poco, solamente quando deve nutrirsi dei corpi degli uomini che a loro volta vorrebbero nutrirsi della sua sensualità.
Non ci vuole molto ovviamente a capire che l'intento di Glazer è quello di imporsi con un opera anticonvenzionale, di andare a battere strade che di solito il cinema tasta unicamente se disposto a rischiare. Rischiare soprattutto di fallire, di non arrivare e di respingere lo spettatore portandolo quasi all’esasperazione, di annoiarlo, ostinandosi a (non) esporre avvenimenti privi di un minimo di chiarezza o di indizio. La bellezza oggettiva della Johansson così - per quanto indiscutibile - non sopperisce a una mancanza (notevole) di sceneggiatura e “Under The Skin” procede secondo le guide di una regia videoclippara dedita a colpire per, fotografia, luci stereoscopiche e avvenenza, regalando qualche serie di frame memorabile (su tutte le scene in cui le vittime vengono sacrificate) ma incapace di sanare tuttavia un estraniamento regolare e snervante.
Non ci sono punte di presunzione in “Under The Skin”, ed è positivo, è più la mancanza di percezione a fare la differenza, a non suggerire quel limite da cui star lontano e ad evitare di uscire troppo fuori dai binari. Il britannico Glazer invece è incurante di tutto e, purtroppo per lui, finisce col bruciarsi con un fuoco talmente vasto che neppure una Scarlett Johansson in topless o in intimo ha le capacità di curare.
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