In direzione sbagliata, la Tav da Lisbona a Kiev. Intervista a Luca Rastello

Creato il 09 dicembre 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 9 dicembre 2013 in Opinioni ed eresie, Slider with 1 Comment
di Silvia Padrini

Questa intervista è tratta da Most#5, quadrimestrale realizzato dalla redazione di East Journal. Chi fosse interessato all’intero numero della rivista può cliccare qui.

Luca Rastello è un giornalista e scrittore torinese. Il suo ultimo libro, scritto con Andrea De Benedetti è Binario Morto (Edizioni Chiarelettere, 2013).

Per scrivere Binario Morto avete attraversato tutta l’Europa. Al ritorno da un viaggio, il bilancio  è  solitamente accompagnato da aspettative disattese e scoperte impreviste. Quali sono state le vostre?

Durante il viaggio tutti due ci siamo sorpresi di molte cose, ad esempio dello scoprire come una narrazione avesse sostituito completamente la realtà. Devo dire però che l’itinerario delle sorprese comincia dopo il viaggio: è stato impressionante nell’elaborare, raccontare e presentare il libro maturare una coscienza intorno alla dimensione e alla spudoratezza della menzogna che c’è sulla vicenda dell’alta velocità e sul corridoio 5, costruita dal discorso politico e mediatico. Questa la grande sorpresa. Una sorpresa contingente è, invece, andare alla stazione di Trieste per comprare un biglietto del treno per Lubiana, tranquillissimi: siamo nel cuore d’Europa nel terzo millennio e ci stanno raccontando che stanno preparando un grande corridoio ferroviario che sostituirà le linee tradizionali (presupponendo che ci siano le linee tradizionali). Alla stazione di Trieste non vediamo sul tabellone nessun treno per Lubiana e all’ufficio informazioni ci dicono che da dicembre 2011  non si va più a Lubiana, è stata tagliata la linea ferroviaria. Si va in corriera, si cambia due volte.  Ma la sorpresa che nasce dopo… Faccio ancora fatica a parlare di menzogna, tanto è spudorata la menzogna quando vedo il direttore dell’osservatorio governativo sulla TAV Virano che in una conferenza pubblica dichiara che la Spagna sta scavando il tunnel sotto il mediterraneo da Algeriras al Marocco. Questa è una cosa per cui qualunque spagnolo gli riderebbe semplicemente in faccia. La Spagna è in crisi economica verticale e le due cause fondamentali della crisi sono la bolla speculativa e le grandi opere, in particolare quelle per l’alta velocità ferroviaria, che registra un passivo senza pari. Allora la grande disillusione è tornare qui, dopo un viaggio di 3500 chilometri, tornare al centro, a Torino, e scoprire che l’Europa contemporanea, super informata, interconnessa, l’Europa dell’ipertrofia della comunicazione è convinta che tutto si può verificare, e quindi che non verifica più nulla. Se una notizia viene data, siccome è facile verificarla non la si verifica più. E noi ci troviamo nelle condizioni dell’europeo del medioevo che trovava  le relazioni di viaggio di viaggiatori che erano stati in oriente che potevano raccontare qualunque cosa, racconti fantastici. Scopriamo con questo viaggio che né un giornalista né un politico si fa lo scrupolo di fare una telefonata o di compiere anche solo pochi chilometri da Torino per verificare alcuni assunti. Esempio di narrazione: mettendo insieme qualche titolo di giornale, Il sole 24ore un mese fa diceva che se si realizza il tunnel, le merci italiane si connetteranno al sistema logistico ad alta velocità francese. È interessante come notizia perché presuppone che esista un sistema logistico ad alta velocità e che ce ne sia uno in Francia. Non c’è bisogno di viaggiare molto o di fare – come abbiamo fatto noi – interviste con grandi esperti di logistica, perché poi abbiamo scoperto che qualunque ferroviere lo sa. Non esiste un solo luogo al mondo, in tutto il mondo, in cui le merci viaggino a una velocità superiore ai novanta chilometri orari.  Il sistema merci non può permettersi velocità superiori, il sistema merci più efficiente al mondo è quello statunitense, limite massimo settanta chilometri all’ora.  Non solo, ma i vagoni merci – anche lenti – non sono compatibili con le ferrovie ad alta velocità, quindi ci viene raccontata una clamorosa bugia. Mi ricordo l’espressione  del presidente della camera di commercio di Algesiras che ci guarda come due deficienti: “di che cosa stiamo parlando?”. E noi: “di merci ad alta velocità”. “Di merci o di alta velocità? Perché sono due argomenti incompatibili.” Da li in poi abbiamo disceso tutta la catena e scoperto che anche l’ultimo dei capi-movimento di una stazione di provincia sa questa cosa. Abbiamo impiegato un anno  ad ammettere con noi stessi che un politico e un giornalista che si suppongono onesti possano raccontare delle storie che sono false e che sarebbero verificabili con un viaggio fino a Brescia o con una telefonata alla stazione. Anche a Torino ci raccontano un sacco di bugie spudoratissime come quella che l’alta velocità viene fatta per liberare il paesaggio dall’asfalto. Invece basterebbe andare lungo la Torino-Milano che è esistente, interessante ed efficiente. Ma i dati sono dati e la realizzazione della linea ha comportato la stesura di 3,8 chilometri di asfalto tra strade d’accesso, scavalchi e strade di servizio. Perciò l’alta velocità aumenta l’asfalto nelle regioni che attraversa. La relazione è un chilometro a quattro. Per vedere questo basta prendere la macchina e andare a Chivasso. Ma nessuno lo fa. Questa è la grande sorpresa.

Il vostro attraversare un continente ha significati molto più ampi della sola vicenda del Corridoio 5. Che Europa avete trovato?

Abbiamo trovato, da un lato, mille europe nel senso di mille territori e mille scelte diverse su come organizzare le infrastrutture viarie e, dall’altro, un’Europa come soggetto politico e istituzionale assolutamente indebolita. Mi spiego. Da un lato c’è il dato che riguarda le grandi opere: “è l’Europa che ce lo chiede” è il mantra che sostiene le tesi. Ora, l’Europa non ce lo chiede. Non c’è nessun capitolo o impegno nei budget per le infrastrutture viarie in cui si parla della modalità. Nessuno chiede nemmeno di realizzare opere ferroviarie,  tant’è che due paesi importantissimi nel corridoio 5, Spagna e Ungheria hanno investito i risicati fondi europei per costruire autostrade. E lo fanno nella piena legalità perché l’UE non pone vincoli di nessun genere. Poi troviamo l’Italia dove ci vogliono le infrastrutture faraoniche, secondo me per carenza di credibilità di governo e per la necessità -come ai tempi delle piramidi egizie- di dare un sostegno simbolico al potere. Realizzare grandi infrastrutture che si proiettano in un futuro immaginario significa far credere che chi è al governo ha una visione del futuro. Salvo poi arrivare al ridicolo, perché per la Torino-Lione, ad esempio, l’entrata in esercizio sarà nel 2035, e il pareggio costi benefici sarà nel 2073. Quale dei politici italiani sarà lì a dimostrarne il risultato? A loro interessa tagliare un nastro e prendere visibilità. Poi troviamo la Slovenia che si arrabbia con l’Italia perché l’Italia ha chiesto e ottenuto in sede europea il veto al collegamento del porto di Capodistria col nord, con la Germania ecc. E per ripicca la Slovenia taglia tutti i collegamenti ferroviari con l’Italia. L’Europa è così debole da non riuscire a mediare tra due suoi paesi membri in una lite di frontiera che blocca un  progetto presentato come prioritario. Il corridoio 5 semplicemente non c’è. Poi troviamo l’Ungheria che costruisce le autostrade e l’Ucraina che ha il colpo di genio più grande di tutta la rete, perché inaugura la rete ad alta velocità per i campionati europei di calcio del 2012 e la velocità media di questa rete è 108 chilometri orari la velocità massima è 162 chilometri all’ora. L’importante è chiamarla alta velocità.

L’ovest e l’est si stanno avvicinando? Oltre al piano infrastrutturale, pensiamo anche al piano ideale, simbolico.

La risposta la possiamo affidare a un portavoce del governo ungherese, esecrabilissimo governo di estrema destra, che ci spiega che l’Ungheria investe in infrastrutture viarie perché ha bisogno di migliorare la rete stradale, per esempio intorno a Budapest, e ha bisogno di collegarsi col nord via Vienna, ma non certo con l’ovest attraverso il corridoio 5. Se un avvicinamento all’ovest è necessario, l’importante è che corrano i dati, non le merci, perché non esiste più l’industria pesante, non esiste più il traffico su lunghe distanze di materie prime, quindi se autostrade ci devono collegare con l’Europa centrale e occidentale siano autostrade telematiche. Tutto dipende da che idea si ha del futuro. La presa in giro consiste nel parlare di opere che entrano in esercizio tra 22 anni e diventano redditizie fra 60 anni, quando si prendeva, giustamente,  in giro il comunismo per la pretesa dei piani quinquennali, cioè di prevedere l’economia ogni 5 anni. Su questa linea di proiezione del futuro ci si perde anche la coscienza del presente: ci sono alcune realizzazioni tecnologiche di oggi, ad esempio la stampante in 3d che permette di realizzare manufatti industriali, dal divano Ikea al kalashnikov. E soprattutto l’argomento contro la concorrenzialità dell’aereo, “inquina”, ma l’aereo è molto più veloce di qualunque treno veloce, arriva ovunque e non comporta nuove infrastrutture. La concorrenzialità è negata per l’inquinamento, eppure è stato realizzato poche settimane fa il primo volo veloce da costa a costa negli Stati Uniti di un aereo passeggeri totalmente mosso da energia solare. In sessant’anni la tecnologia dei motori aerei e terrestri non migliorerà l’impatto ambientale in modo da rendere inutile la devastazione dell’ambiente con grandi opere infrastrutturali?

Altri viaggi sono stati molto importanti nella sua esperienza, in particolare quelli compiuti in ex-jugoslavia negli anni ’90 durante la guerra. Come vede la situazione di quei paesi oggi?

Io non mi ritengo più competente perché non mi occupo di quell’area da dieci anni. Bisogna saper cambiare e non fossilizzarsi a livello professionale, sarebbe pericolosissimo. Dunque ora il mio parere oggi è quella di un normale cittadino informato. La mia visione non è particolarmente ottimista. La sensazione è che in molte aree investite dalle guerre negli anni’90, le contraddizioni che hanno portato a quelle guerre non siano state per nulla risolte, anzi, in certi casi si sono acuite. La presenza internazionale permanente è poi condizionante sia nelle missioni diplomatiche con militari sia nel continuo di aiuti umanitari in zone che non hanno piu situazioni di guerra da 15 anni e questo diventa terribilmente condizionante per l’economia locale. È difficile investire dove c’é troppa economia umanitaria, nessuno lo fa. Negli anni successivi agli anni della guerra in Kosovo c’erano talmente tante ONG internazionali, circa quattrocento, che qualunque famiglia del Kosovo non apriva un esercizio commerciale o laboratorio artigianale né, men che meno, un’impresa. Semplicemente creava una ONG, produceva un progetto possibilmente riguardante l’AIDS perché allora a Bruxelles veniva finanziato e si creava una partnership con una ONG internazionale. Questo però ha condizionato e paralizzato l’economia reale, non solo lì, ma in molte parti del mondo, purtroppo. Ma c’è anche una forma di colonialismo compassionevole con cui bisognerà fare i conti e che paralizza le prospettive di sviluppo e che praticamente consegna parti della popolazione all’assistenza. Non ci si consola con i progetti sostenuti dal microcredito o la cooperativa che fa la marmellata, è bello ma sono tutte cose che lusingano la nostra coscienza occidentale un po’ colonialista. Di fatto, là, le contraddizioni grandi rimangono accese, come rimangono accese e vive le sensibilità nazionaliste, magari difensive, però di fatto queste parti politiche continuano a vincere. Noi parliamo di annessione alle istituzioni europee e mi sembra una strada luminosa e illuminata, ma non è certamente la soluzione dei problemi. Significa portare all’interno dell’UE numerosi problemi e portare all’interno di quei paesi i forti problemi di delegittimazione  e debolezza dell’UE. In particolare, mi interessa molto il cammino delle scelte che potrebbe fare la Macedonia in questo periodo, che mi sembra la più scettica delle nazioni dell’ex-jugoslavia che ha un forte legame con la Turchia e che, visto il rallentarsi dell’avvicinamento della Turchia all’Unione Europea, comincia a guardare più a sud-est che a nord-ovest. E forse potrebbe trarne davvero dei benefici.

Parliamo delle categorie “qui” e “la“, “noi” e “loro”. Nei rapporti Balcani- Europa e Balcani-Italia, è cambiato qualcosa a livello di stampa e di mass-media?

È cambiato molto, perché il “noi” e “loro”, “qui” e “là”, negli anni ’90 era come se la Jugoslavia fosse un’alterità radicale; dimenticavamo facilmente che andavamo in tanti a farci le vacanze al mare e quando c’erano i campi di sterminio a trecento chilometri da noi sembrava che fossero in Asia centrale. Questo “qui” e “là” direi che non c’è più, c’è la percezione che siano dei vicini, anche se magari problematici e sconosciuti. Ma gli italiani non conoscono nemmeno la Francia, gli  italiani sono bravi a non conoscere i loro vicini a ovest come a est, se non attraverso storie. C’è però un “noi” e “loro” pesante che potrebbe essere inquietante all’atto di entrata di questi paesi nell’UE. L’Unione Europea si sta strutturando sempre di più come un’istituzione a doppia velocità, è come avere un parco buoi, ci sono i paesi creditori e quelli debitori, i paesi che delineano le politiche economiche e finanziarie e i paesi che devono aggiogarsi e costruire tutte le politiche, anche sociali, alla musica delle necessità economiche e finanziarie di alcuni paesi a nord che impongono la danza. Ovviamente questo atteggiamento di imporre la danza richiede un parco buoi sempre più vasto. Non basta costringere l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo -i cosiddetti PIGS- alle politiche di aggiustamento strutturale che già erano fallite in Africa negli anni ’90 imposte da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, perché è quella la strada che stiamo percorrendo. Ora siamo noi che portiamo ricchezze in casse altrui, però i PIGS non bastano, allora aggiungiamo un po’ dei Balcani.

A proposito di Unione Europea e del malcontento che c’è rispetto alle decisioni prese dall’alto. Da un lato, la reazione è quella di chiudersi nei propri problemi nazionali  e di conseguenza l’UE  sembra sempre più lontana. Dall’altro lato, ci sono le rivolte nei paesi del Mediterraneo. Gli equilibri si stanno ridefinendo, sia per paesi i membri dell’UE, sia per gli aspiranti membri.

In via ideale, io credo che una comunità mediterranea sarebbe  una prospettiva molto più affascinante della strada che ha intrapreso l’Unione Europea, che è una strada già battuta in passato in altre zone del mondo e che ha mostrato i suoi fallimenti: ha allargato la forbice sociale, ha creato povertà e situazioni tragiche che ormai sono irreversibili. Il cammino in questo momento non è così virtuoso e trovo significativo che nelle destre europee crescano le impressioni euroscettiche. È impressionante il tono esplicito con cui Silvio Berlusconi ormai adombra un’ipotesi  secessionista. È significativo e allarmante. Credo che il programma europeo vada perseguito ancor fortemente, ma su tutt’altra strada. A bilanciare questo programma, una comunità mediterranea mi sembra la strada imprescindibile. La capacità di dialogare con le altre sponde del Mediterraneo è fondamentale, tanto più oggi che c’è una grande necessità di più scambi commerciali, economici e politici con altre istituzioni.

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