Una fila interminabile di macchine vecchie, cariche all'inverosimile e di gente e masserizie, in marcia sulla Highway 66. Se la Grande Depressione ci rimanda alla mente le immagini di Furore, dei contadini cacciati dalle loro terre e in cerca di futuro verso la terra promessa dell'ovest, la Grande Recessione dei nostri anni è ancora in cerca di una narrazione e un'immagine. La prima è difficile (in fondo, anche Furore uscì nel '39, dieci anni dopo); la seconda difficilmente componibile. A meno di non mettere tutti in fila, su un'immaginaria Highway 66, i tredici milioni di giovani europei definiti per negazione: i né-né. Né al lavoro, né a scuola. Persone dalle quali “dipende l'immediato futuro dell'Europa”, e che l'Europa sta bruciando. Sacrificando più o meno due generazioni, come eserciti di leva nella guerra dell'economia.
La frase tra virgolette appena citata non viene da un saggio né da un romanzo né da un discorso politico, ma da una pubblicazione statistica dell'Eurostat, diffusa qualche giorno fa e intitolata “NEETs - Young people not in employment, education or training: Characteristics, costs and policy responses in Europe”. Neet è per l'appunto l'acronimo inglese che individua i giovani, tra i 15 e i 29 anni, che non sono occupati, non frequentano una scuola o università, non sono impegnati in attività di formazione di altro tipo; e l'indagine Eurostat ne traccia le caratteristiche, per la prima volta ne quantifica i costi, e cerca di avanzare qualche proposta politica. Si sapeva già, dai dati sull'occupazione e sulla disoccupazione, che i giovani sono le vittime principali della grande recessione, quella iniziata nel 2007-2008 e della quale in Europa non si vede ancora la fine. Non c'è mese in cui, all'uscita dei dati Eurostat e Istat sui disoccupati, non si parli di nuovi record e non si sottolinei che i record dei record, purtroppo, riguardano la disoccupazione giovanile. Che è sempre stata un po' più alta di quella complessiva, perché i giovani sono più vulnerabili sul mercato del lavoro; ma che è schizzata in su proprio dal 2007 in poi, passando dal 15,7 al 21,4% nella media europea (media dentro la quale c'è anche l'impressionante 46,4% della Spagna, il 44,4% della Grecia, il quasi 30% di Irlanda, Italia e Portogallo). Ma attenzione: il tasso di disoccupazione non ci dice tutto, avverte l'Eurostat.
Qui serve una piccola spiegazione statistica, che potrà sembrare tecnica ma invece ci aiuta a passare dai numeri alle persone. I disoccupati, per le statistiche, sono quelli che non hanno un lavoro e lo cercano, e sono disponibili a andare a lavorare subito. E il cercarlo, sempre negli standard statistici internazionali, richiede azioni precise in tempi precisi: il tutto poi risulta nelle risposte che si danno alle indagini campionarie che con questi criteri vengono condotte, e porta a uniformare a livello mondiale la nozione di “disoccupato”. Dalla quale, dunque, resta fuori chi non ha lavoro e non lo cerca attivamente, oppure non lo ha cercato nei tempi e nei modi codificati. Non solo. Il tasso di disoccupazione è un rapporto, e al denominatore della frazione c'è l'universo di tutti i giovani “economicamente attivi”: ossia quelli che lavorano e quelli che vorrebbero lavorare. Quindi, il tasso di disoccupazione giovanile non risponde alla domanda: qual è la percentuale di giovani che non lavorano?, ma alla domanda “qual è la percentuale di giovani che cerca e non trova lavoro, in rapporto al totale dei giovani che lavorano e che cercano lavoro?”. Quel che ne risulta è un numero importante, un indicatore che – abbiamo visto – è drammaticamente salito negli ultimi anni. Ma dalla fotografia restano fuori gli altri. Il tasso dei “Neet” invece comprende al numeratore tutti i giovani che non sono occupati in qualche attività: di lavoro, formazione o istruzione. E al denominatore l'intero universo del 15-29enni. Dunque, risponde alla domanda (la semplifico così): qual è la percentuale di giovani che non fa niente? Per questo è un indicatore più cupo e drammatico: è più basso del tasso di disoccupazione (per logica matematica: l'universo di riferimento è più ampio), ma più imponente in numeri assoluti. Eccoli: in Europa ci sono 7,5 milioni di Neet tra i 15 e i 24 anni, e 6,5 milioni tra i 25 e i 29. Dunque, 13 milioni, in totale: molti di più dei “semplici” disoccupati, che tra i giovani sono 5,5 milioni. Tredici milioni sui 94 milioni di persone alle quali, scrive l'Eurostat nell'introduzione al suo rapporto, è affidato il futuro dell'Europa, nel contesto di sfide crescenti della piena globalizzazione dell'economia e dell'invecchiamento della popolazione.
Per tornare alle percentuali, il tasso Neet nella fascia di età 15-24 anni è del 13%, mentre per la fascia 25-29 sale al 15%. Entrambi i tassi sono balzati in avanti con la recessione. E non sono uguali per tutti. Così come non sono uguali per tutti le caratteristiche dei giovani Neet. Nella media prevalgono i maschi, ma in alcuni casi – da noi, per esempio - sono più a rischio Neet le ragazze; a volte i Neet sono giovani che hanno perso il lavoro, altre volte giovani che non hanno mai lavorato; e differenti sono anche le caratteristiche dell'istruzione: in linea generale, sono più presenti tra i Neet giovani a bassa qualificazione e istruzione, ma anche qui l'Italia è tra le eccezioni, con una sensibile presenza di Neet con istruzione universitaria.
Se si guarda alla mappa geografica dei Neet, insomma, siamo nelle zone più a rischio: sia per il tasso di Neet, sia per il ritmo del loro aumento con la recessione, sia per la composizione. In particolare, per il precipitare dentro il pozzo dei Neet di donne con alta qualificazione (laureate), e per la strutturale e storica presenza al suo interno dell'universo dei giovani meridionali.
Di conseguenza, l'Italia è ai primi posti anche nella quantificazione economica dei danni “da Neet”. Il romanzo statistico dell'Eurostat sui Neet infatti ha questa rilevante novità: conta i danni, i costi. Con calcoli precisi e semmai sottostimati. A livello europeo, viene fuori che i giovani né-né costano 153 miliardi: l'1% del Pil europeo. Per paesi come l'Italia, il costo è ancora maggiore: il 2,06% del Pil. Trentadue miliardi, diciamo più o meno 87 milioni al giorno. Vale a dire: se riuscissimo a far entrare al lavoro anche solo la metà dei giovani Neet, la manovra varrebbe un punto di Pil, 16 miliardi. Eppure, mentre a giorni alterni si sente in tv quantificare quanti milioni sono stati “bruciati” in borsa per un'oscillazione dello spread, non ci capiterà mai di accedere il tg e sentire: “anche oggi in Italia sono stati bruciati 87 milioni per la mancata partecipazione dei giovani al mercato del lavoro”.
Mentre bisognerebbe correre a spegnere l'incendio, e ribaltare l'impostazione della politica economica – l'agenda, per usare una parola di moda – mettendo al primo posto loro, quelli che ora sono all'ultimo, invisibili solo perché le famiglie fanno da cuscinetto sociale, e dunque non sono costretti a mettersi tutti in fila su una strada verso l'ovest (o il nord) per cercare un futuro.
I disperati di Steinbeck avevano davanti – anche se non lo sapevano, e molti non ci sono arrivati – l'arrivo del New Deal. I nostri sono meno disperati (alcuni: l'altra conseguenza di tutto ciò è l'aumento delle diseguaglianze e un fortissimo ritorno alla società delle caste familiari, chi può godere della protezione della famiglia comunque se la cava meglio), ma ogni nuovo patto è bloccato dalla camicia di forza nella quale la politica europea si è infilata. Fino a quando?
* quest'articolo è ripreso da www.ilcorsaro.info e sviluppa la traccia dell'intervento di Roberta Carlini all'incontro dell'European Progressive Economists Network - Firenze 10+10, 9 novembre 2012