In fuga da Istanbul, la storia vera di un rifugiato lungo i bassifondi d’Europa

Creato il 09 maggio 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 9 maggio 2013 in Interviste, Mafija, Opinioni ed eresie, Slider, Turchia with 0 Comments
di Carlo Ruta

La lunga marcia dal Bosforo al vecchio continente di un rifugiato politico in Italia. Le piste del narcotraffico. I trattamenti dei servizi segreti dell’Est. Le tratte di esseri umani. Le disillusioni della «terra promessa». Questa è l’eccezionale storia di Gabriel M., raccolta dal giornalista e saggista Carlo Ruta, già pubblicata su Antimafia Duemila e Narcomafie.

È una storia emblematica quella di Gabriel M. di Istanbul, 37 anni, sposato e residente in Italia, dove dopo il 2000 ha ottenuto dallo Stato il riconoscimento di rifugiato politico. Condannato dallo Stato turco perché simpatizzante di una organizzazione di estrema sinistra, il Dhkp-C, da cui si è dissociato con molta convinzione, Gabriel si è dato alla fuga nel 1997, quando aveva 22 anni. Egli ha percorso, seppure in parte minima, quella che medioevo era stata chiamata la Via della Seta e che oggi è diventata, tra l’altro, la via dell’eroina e dei mercanti di schiavi. Lungo queste piste Gabriel, intrecciando la sua storia con quella di tantissimi altri in fuga come lui, ha subito la segregazione, nelle carceri e nei campi per immigrati, ha dormito all’addiaccio, nelle stazioni e in case diroccate, ha attraversato foreste, anche a piedi. Ha dovuto lavorare per funzionari dei servizi segreti bulgari. Ha conosciuto, per forza di cose, trafficanti di ogni specie. Dopo questa esperienza, durata ben 15 mesi, ha dovuto reimpostare la propria vita, con molte difficoltà. Da allora non ha potuto più ritornare nel suo paese, neppure quando gli è morto il padre, appena dieci mesi fa. In questi anni egli ha riflettuto molto sul suo passato, dalle scelte politiche fatte da ragazzo al mito dell’Occidente ricco e in grado di garantire un futuro. Adesso, disilluso da tante cose, pensa a un ritorno possibile.

Gabriel, nel 1997, quando era già avvenuta l’unione doganale tra la Turchia e i paesi della comunità europea, tu hai deciso di fuggire dal tuo paese. Perché? Cosa ti convinto a intraprendere un percorso tanto radicale?

Da tempo ero ricercato perché avevo rapporti con il Dhkp-C (movimento terroristico d’ispirazione marxista, ndr). E quell’anno è avvenuto il peggio. Sono stato trovato in casa dai poliziotti, sono stato condotto in un luogo segreto, pestato a sangue e torturato. Mi chiedevano dove nascondevo le armi con cui era stato ucciso il sindaco di una cittadina curda. In realtà non sapevo nulla e loro agivano a caso. Era un bluff. Mi hanno fracassato la testa con il calcio dei fucili, lasciandomi una ferita di quasi dieci centimetri. Ho perso i sensi. Convinti di avermi ucciso, mi hanno abbandonato in un parco per bambini, dove in poco tempo ho ripreso conoscenza. Nei giorni successivi, dopo che mi ero ristabilito, mi sentivo in pericolo, avvertivo che mi cercavano per completare il lavoro. Ho cominciato allora ad organizzarmi per fuggire dalla Turchia. Mi sembrava la scelta più opportuna, anche perché numerose persone che conoscevo in quel periodo erano state assassinate.

Come hai attuato il tuo proposito?

Sono andato alla ricerca di un passaporto falso e presto l’ho ottenuto, sotto il nome di Ibrahim Cetkin. Per uscire da Istanbul, dopo alcuni mesi di clandestinità sono riuscito a imbarcarmi, con questo nome, come mozzo in una nave che faceva la spola tra Istanbul, la Russia e l’Ucraina. Ma era solo un ripiego, per evitare la cattura. Il mio intento era di rifugiarmi nell’Europa occidentale, entrando dalla Bulgaria, come facevano in tanti. Ma come muovermi? Ho dovuto rivolgermi ad una organizzazione criminale, legata alla mafia turca, che organizzava i traffici di persone verso la Bulgaria utilizzando furgoni e camion carichi di vestiario. Ho attraversato il confine nascosto su un furgone Ford Transit carico di giacche di pelle, molto pesanti. Ho quasi rischiato di rimanere schiacciato. Così, con 700 dollari in tasca mi sono trovato in Bulgaria. Era il 20 ottobre 1999.

Come ti sei mosso dopo che sei arrivato in Bulgaria?

Da Plovdiv, dove sono sceso dal Ford Transit, mi sono recato in treno a Sofia, dove ho preso contatto con le autorità per richiedere l’asilo. Mi hanno sistemato in un buon hotel, mi hanno garantito un avvocato, e tutto questo mi faceva sentire al sicuro. Ho preso contatto allora con un mio compagno di appena 19 anni, Mahir Goktas, anche lui di Istanbul, perseguitato perché pure lui simpatizzante del Dhkp-C. Era stato arrestato perché aveva scritto su un muro “No alla guerra”, ed era stato il detenuto politico più giovane della terra. Per questo intorno al 1995 aveva fatto ricorso alla Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo, aveva ottenuto una sentenza favorevole, che obbligava lo Stato turco a concedergli un risarcimento di 20mila euro. Questo ragazzo, di cui ho un bellissimo ricordo, nel 2006, quando aveva 26 anni, è stato ucciso e buttato in mare, probabilmente con il nulla osta dei servizi segreti bulgari.

Perché i servizi segreti bulgari hanno agito in questo modo? Qual era il loro atteggiamento con i reclusi?

Nel caso del mio amico non saprei, forse Mahir era entrato in qualche giro compromettente. Il sistema usato nei riguardi dei reclusi era comunque quello del bastone e della carota. Ho ottenuto l’asilo con il nome di Ibraim Cektin. Ho evitato di dare il mio vero nome perché in Bulgaria i servizi segreti sono capaci di tutto. Da alcuni afghani e persiani avevo saputo che essi avevano venduto un rifugiato dell’Iran al Savama, il servizio segreto iraniano. Ho scoperto inoltre che operavano come una mafia coperta. Lasciavano passare eroina, si accordavano con i trafficanti che erano disposti a pagare un pizzo. Ho scoperto che passavano dalla frontiera turca enormi quantitativi di droga. Nel periodo in cui ero lì i turchi transitavano solo se pagavano, e il denaro contante veniva nascosto in sacchi di zucchero.

E nei tuoi riguardi come hanno agito? Mi dicevi che hai ricevuto un trattamento particolare …

Infatti. Io ho avuto a che fare con un certo Arabaciyev. Era un uomo poco più che cinquantenne, aveva studiato a Mosca e, da quel ho capito, aveva avuto un ruolo non secondario nel KGB. Si trattava formalmente di un alto funzionario di polizia che si occupava dei rifugiati politici. Nel primo incontro era solo, ma nel secondo c’erano con lui altri due funzionari, forse di grado superiore. Si sono presentati con i nomi di Ivan e di Gioro, ma ritengo che si trattasse di nomi falsi. Mi hanno fatto capire che anche loro facevano parte dei servizi segreti bulgari. Mi hanno detto che non mi avrebbero fatto del male e che ravvisavano in me una persona perbene, lontana dai traffici di droga. Mi hanno “chiesto” quindi se intendessi collaborare con loro. Si trattava di una proposta di tipo ricattatorio. Se avessi rifiutato, avrei pagato chissà quale prezzo. Ho deciso quindi di accettare.

In cosa consisteva questa collaborazione?

Premetto che eravamo ospitati in un edificio enorme, di sette-otto piani, situato in un luogo completamente deserto, in via Montevideo. E dietro questo edificio c’era un grandissimo dormitorio dove erano stipate due-tre mila persone, afghane, persiane, macedoni, curde. E il loro problema maggiore era costituito proprio dai rifugiati curdi. Tra questi si nascondevano infatti gli «esattori» del PKK, che esigevano il pizzo da tutti: curdi, turchi, afghani e di altri paesi. Erano del resto i curdi a gestire il traffico di esseri umani per la Grecia, attraverso Komotina, in Tessalonica. Questa situazione per i servizi segreti bulgari non andava bene, pure per ragioni di concorrenza, perché anche loro erano parte in causa nel traffico di esseri umani e dell’eroina. Va tenuto presente che il governo bulgaro di allora, socialdemocratico e legato al passato regime comunista, si diceva favorevole alla causa curda, e non poteva rispedire i curdi nel loro paese, dove sarebbero stati perseguitati. L’obiettivo era allora quello di controllare la situazione estirpando dalla massa dei rifugiati, i collettori del PKK. E la loro tecnica era quella dell’infiltrazione. Introducevano due-tre persone all’interno dei cameroni curdi, facendoli passare come simpatizzanti, e in questo modo erano in grado di monitorare e di contrastare il racket. Questi funzionari, in cambio della mia collaborazione, mi hanno assicurato l’asilo politico, una carta d’identità bulgara e un lavoro.

Come vivevi il ruolo che queste persone ti hanno assegnato?

In fondo denunciavo malfattori, trafficanti di uomini, ma ti confesso che ero attanagliato da un forte senso di colpa. Non era la mia causa. Tutto questo non rientrava nei miei principi. Ho quindi sofferto molto in quei mesi. Ho fatto questo lavoro di infiltrato tra marzo e il giugno 2000. E ho conosciuto cose terribili. Naturalmente ho rischiato tantissimo perché se mi avessero scoperto mi avrebbero ucciso. Nel 2003 ho letto che Guevara, quando è passato dal Guatemala, ha avuto qualche intrigo con ambienti loschi dei servizi segreti, ma il rimorso per quanto ho fatto in quei mesi rimane in me vivo.

Come funzionava il racket del PKK, che tu allora avevi il compito di denunciare?

Si trattava di un vero e proprio potere che si era ramificato a Sofia e nelle aree geografiche abitate della minoranza turca, che equivale a circa il 10% della popolazione complessiva. Ho scoperto che gli uomini del PKK erano in grado di imporre alle fabbriche tessili, e di altri comparti, fino al il pagamento del 20 per cento dei guadagni. Le autorità bulgare ne erano profondamente infastidite. Nello specifico dei rifugiati era stato messo in opera un meccanismo molto ben congegnato. Esistevano circa 50 emissari del partito curdo, e ognuno di essi aveva il compito di taglieggiare e controllare un gruppo di duecento persone. Questi funzionari avevano un potere di soggiogamento enorme, incutevano timore, e non si trattava di un fatto locale, ma di una regola che vigeva in tutta Europa.

In che senso?

Questi individui avevano mansioni speciali perché erano stati feriti nelle montagne del Kurdistan. Quando i combattenti vengono feriti, non vengono congedati ma inviati «in vacanza» in Europa, per svolgere altri lavori. Diventano allora «esattori» di pizzo, anche nei riguardi dei trafficanti di eroina, o veri e propri killer. Tutto questo ho potuto constatarlo, pure di persona. Il PKK non è un quindi il partito che intende liberare i curdi dalla lunga oppressione turca, ma una organizzazione antidemocratica, di stampo terroristico e con forti venature mafiose. Solo per questo riuscivo a vincere il rimorso e a svolgere il compito d’informazione che mi era stato assegnato con zelo.

Puoi dire di qualche operazione di polizia che ha preso spunto dal tuo lavoro informativo?

Grazie alle mie informazioni sono stati disarticolati alcuni traffici importanti di esseri umani e di eroina, che avevano il loro punto di snodo a Varna, la maggiore città portuale del paese. I miei committenti volevano informazioni su un boss che faceva la spola tra questa città e Sofia. Ho fornito loro delle notizie, e alla fine sono riusciti a espellerlo con il foglio di via per l’Europa.

Perché tutto si è concluso in appena quattro mesi? Era il senso di colpa che covava, per un lavoro che non ti apparteneva?

Questo c’era, ovviamente, ma c’era anche altro. I servizi bulgari erano in procinto di trovarmi un lavoro, ma non mi sentivo al sicuro, non solo a livello economico. Per loro ero una pedina, uno strumento. Alla prima occasione sarei potuto diventare merce di scambio, come era accaduto appunto ad altri. Essi mi hanno mandato in un quartiere bene di Sofia, in montagna, Pancharevo, dove avevo vitto e alloggio gratuito. Ero ospitato da un giovane turco, Ugur, che curiosamente si diceva anarchico, proveniente da una famiglia ricchissima, fuggito anche lui, e ritornato poi in Turchia nel 2004. Ho passato quattro mesi lì, e ho capito che non intendevano mollarmi. Ho fatto amicizia allora, senza che Arabaciyev e gli altri sapessero nulla, con un altro ex funzionario del KGB, tale Alexander Rashev, che fabbricava documenti falsi in cambio di denaro. Mi ha chiesto mille dollari in cambio di un passaporto che mi avrebbe consentito di entrare nell’Unione Europea. Ho sborsato questo denaro, e dopo un mese ho avuto il nuovo passaporto, con un nome bulgaro di etnia turca, e alla fine ce l’ho fatta.

Cosa è successo dopo?

Sono arrivato a Budapest in Ungheria. Ho raggiunto poi Bratislava, in Slovacchia. Era il 22 settembre del 2000. Qui ho preso il treno per Vienna, con un gruppo di rom, ma a Graz si è scoperto che il passaporto era falso e mi sono ritrovato in cella. Sono stato trattenuto due giorni. La cella era piccola, di appena quattro metri, ma ben riscaldata e molto igienica. Rispetto alle prigioni turche era una favola. Sono stato trattato con rispetto. Ho richiesto l’asilo politico, ma poiché sono stato fermato entro i 25 chilometri dalla frontiera, per effetto della legge Frontex, sono stato rispedito in Ungheria. Il 25 settembre mi sono ritrovato quindi in un carcere per stranieri, tipo CPT, a Gyor. La situazione che ho trovato è indescrivibile. Questo carcere era in mano a una specie di «legione straniera» di militari dal passato turbolento, per rissa, droga, alcolismo e altro. Si trattava di gente molto pericolosa e i prigionieri non erano da meno. Nel mio capannone c’erano individui che avevano alle spalle omicidi, di cui pure si vantavano. Mi è stato detto che sarei rimasto lì per un anno e mezzo. Ma al quarantacinquesimo giorno io e un pugno di ragazzi con cui avevo fraternizzato abbiamo deciso di tentare fuga. Abbiamo convinto alcuni compagni a simulare una rissa. L’attenzione delle guardie si è spostata verso di loro, e noi saltando due recinti alti ognuno quattro metri, ce l’abbiamo fatta. La legge in casi simili consente di sparare, ma quella volta per fortuna non è accaduto.

Eri ormai sulla strada da mesi. Avevi vissuto esperienze terribili Come riuscivi a sostenerti? Da dove traevate, tu e i tuoi compagni, la forza per continuare?

Ci sosteneva la speranza. In Turchia si dice «La speranza è il pane dei poveri». Io e Sultan, un ragazzo iracheno, abbiamo fatto a piedi decine di chilometri, abbiamo attraversato diversi fiumi, foreste pullulanti di cervi e cinghiali. Era tremendo trovarci in quei posti, ma era anche bellissimo. La Slovenia e l’Austria sono piene di vigne, da cui vengono tratti vini pregiati. I guai comunque non sono finiti. Ci siamo trovati in una cittadella slovena, Lendava, e lì siamo stati fermati da un’auto della polizia. Abbiamo detto loro di essere diretti in Germania. Ci hanno portati con loro e sistemati in una cella, estremamente pulita, con il pavimento scaldato. Era occupata da un kosovaro. Ci hanno rifocillati con formaggio e scatolette di carne. La Slovenia allora premeva per entrare nell’Unione Europea e prestava molta attenzione alle regole. Era l’8 dicembre quando siamo entrati nel campo di rifugiati di Lubiana, un enorme edificio di sei piani, sovraffollato, dove c’era un gran numero di afghani, somali, sudanesi, alcuni iracheni. Quando siamo arrivati c’era una troupe della televisione locale, perché era in atto una protesta dei prigionieri. Ai poliziotti che ci hanno interrogati io e Sultan abbiamo detto, mentendo, che venivamo dalla Turchia ed eravamo diretti in Germania. Ci hanno creduti.

Eravate già a un passo dall’Europa che sognavate. Notavate delle differenze?

C’era forse una maggiore organizzazione. La tratta degli esseri umani era più spedita. Nel campo eravamo tutti divisi per nazione, e la gestione delle nazionalità era gestita, d’intesa con i poliziotti sloveni, da trafficanti, che apparivano comunque meno cinici e spietati di quelli che avevamo conosciuto altrove, in grado di ucciderti senza pietà. Essi seguivano un copione perfetto. Organizzavano il viaggio in pullman per destinare i migranti nei paesi dell’Unione Europea, e il punto di snodo era Nova Gorica. Pagata la somma pattuita siamo arrivati quindi in questa città, dove c’era un gran viavai di gente per via del Casinò, frequentato da molti italiani.

Qual è stato il primo impatto con l’Italia?

Tutto sommato l’impatto è stato positivo. Vado per ordine. A Nova Gorica sono stato intercettato da un trafficante tunisino, Hassan, che aveva bisogno di un traduttore per comunicare con iraniani, che conoscono il turco. Mi sono ritrovato quindi in un garage dove erano stipate diverse decine di persone, cui il tunisino intendeva imporre un supplemento di denaro. Questo trafficante mi ha ripagato, offrendoci i biglietti del treno per Venezia, dove sono arrivato il 13 dicembre 2000. Ho deciso allora di richiedere l’asilo politico. Sono andato dai carabinieri che mi hanno trattato con una umanità che mi ha sorpreso. Volevano farmi arrivare del cibo ma ho detto di no. Mi sono ritrovato poi, di mattina, alla questura di Marghera. C’era un grande affollamento. Sembrava che fosse confluito lì il mondo intero. C’erano afghani, cinesi, iraniani, marocchini, curdi e gente di molti altri paesi. Una ispettrice, gentilissima, mi ha sistemato in un albergo di Chioggia, e mi ha detto che per l’asilo politico si doveva aspettare la decisione del tribunale. Cominciava in quel momento il mio percorso italiano di rifugiato. Lo status mi sarebbe stato riconosciuto tuttavia un anno e mezzo dopo.

Non era una storia a lieto fine, vero Gabriel?

Assolutamente no. Dell’Italia lentamente ho avuto modo di conoscere gli aspetti più problematici. Ho dovuto fare i conti con la mafia e la corruzione. In questo paese i rifugiati politici siamo 25mila, su circa quattro milioni di immigrati, ma non mi sento garantito. A dispetto delle leggi europee, a lungo sono stato senza lavoro, ho dovuto vivere anni interi alla giornata. Mi è anche capitato, in certi momenti, per fortuna passati, di dover cercare pane nei cassonetti della nettezza urbana. E tutto questo non credo sia civile.

Cosa è per te allora l’Europa, adesso che l’hai conosciuta e l’hai vissuta già da dodici anni?

Direi che rimane, malgrado la crisi, una Disneyland, in cui però non puoi sentirti appagato, dove non puoi uscire dalla parte che ti hanno assegnato. Mi sento come un venditore di popcorn. Tutti attorno a me fanno festa, tranne io. Sei condannato a lavori che ti alienano, che ti fanno sentire diverso. Ancora oggi non esiste uno stato sociale, un vero welfare, per gli immigrati. Pur avendo la pelle chiara mi sento quindi un «negro». Niente per me ha il colore della libertà. Ormai da molti anni non sogno più. Ho lavorato al Petrolchimico di Marghera e portavo a casa 920 euro al mese, mentre i miei colleghi italiani ne guadagnavano 1600, perché loro, per effetto dei contratti di lavoro nazionali, godevano delle trasferte. Casa mia è a cinquemila chilometri di distanza, e, paradossalmente, non posso godere di questi benefici. In definitiva, lavorando tanto io ho ricevuto poco, e questo è, nella sostanza, quello che accadeva agli schiavi neri dell’Ottocento, in Luisiana, nel Texas nel Mississipi, quelli che hanno creato l’economia americana del cotone, quelli che producevano i blue jeans.

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