Quella che in gergo si definirebbe una storia low-concept, una narrazione quasi dimessa, senza una trama che preveda a tutti i costi il salvataggio del mondo, è invece una storia che parla proprio di questo. Cosa infatti costituisce il nostro mondo e ci è indispensabile come gli affetti e un’occupazione, che diano un senso e una dignità alle nostre giornate? Winspeare, senza rifuggire qualche risata e qualche necessario momento di distensione, racconta infatti le conseguenze della perdita della dignità e degli sforzi per riconquistarsela, lasciando che ogni personaggio lo faccia a modo suo e facendo notare la sua presenza il meno possibile. Lavorando indefesso la terra o inseguendo caparbiamente un sogno; rendendosi conto che non c’è più tempo da sprecare o viceversa che è arrivato il momento di ricompensare i propri sacrifici, e concedersi una follia. In una lingua a tratti poco comprensibile, soprattutto al di fuori dei primi piani – ecco la necessità dei sottotitoli per tradurre la parlata salentina – che però cerca costantemente spontaneità. Ci riesce a tratti: un po’ di naturalezza in più non avrebbe nociuto al prodotto finale. Che si merita comunque un po’ della grazia di dio, e del pubblico.
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Paolo Ottomano