In memoria di Wisława Szymborska

Creato il 03 febbraio 2012 da Retroguardia
«Se mi fa paura la morte? Per me la morte non esiste. Esiste un certo fatto penoso, nel senso del dolore. Quando penso alla morte, penso alla sofferenza, non alla morte come tale. La morte semplicemente non c’è. Non so… una volta sognai che ero morto. Somigliava molto alla realtà. Avvertii una liberazione, una leggerezza incredibile. Forse proprio questa sensazione di libertà e leggerezza mi diede l’impressione di essere morto, sciolto da tutti i legami con il mondo. Spesso l’uomo confonde la morte con la sofferenza. Forse, quando la incontrerò faccia a faccia, avrò paura, penserò diversamente… è difficile dirlo»
(Andrzej Tarkovskij)

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di Giuseppe Panella

E’ troppo presto ancora per fare un discorso generale sulla sua poesia (anche se la casa editrice Adelphi ha pubblicato tutte le sue poesie già dal 2009 (1) e una valutazione generale sulla sua opera sarebbe forse possibile).
Quando la Szymborska ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1996, il suo era un nome quasi totalmente sconosciuto in Italia come annotò, con pochissima “carità poetica”, il “Corriere della Sera” dando notizia della sua vittoria (2). Le edizioni italiane delle sue opere poetiche sono, in realtà, praticamente tutte successive al Nobel (3) e il suo nome, popolarissimo in Polonia dove i suoi libri vendevano come i romanzi di successo (4), continua a essere noto soltanto agli iniziati.
Lei stessa lo ammetteva con la consueta fine e smaliziata ironia di sempre:

«Ad alcuni piace la poesia. Ad alcuni / cioè non a tutti. / E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza / Senza contare le scuole, dove è un obbligo, / e i poeti stessi, / ce ne saranno forse due su mille. // Piace   – / ma piace anche la pasta in brodo, / piacciono i complimenti e il colore azzurro, / piace una vecchia scarpa, / piace averla vinta, / piace accarezzare un cane. // La poesia – / ma cos’è mai la poesia? / Più d’una risposta incerta / è stata già data in proposito. / Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo / come alla salvezza di un corrimano» (5).

La poesia è qualcosa di dannatamente serio – la poetessa Szymborska sembra dire a mezza bocca, (tongue-in-cheek, direbbero gli anglosassoni) per non far capire che ci crede veramente. Perché, nonostante l’ironia e l’understatement che non erano certamente mai piaciuti ai burocrati del socialismo culturale “reale” dei Paesi dell’Est (i “burocrati dello spirito” sono sempre peggiori dei puri e semplici passacarte perché credono in quello che fanno e vorrebbero che ci credessero anche gli altri “operatori culturali”; i burocrati “semplici” sovente non pensano e basta), alla forza della poesia la Szymborska doveva crederci per forza, non foss’altro che per sopravvivere al grigiore e alla monotonia della vita nel suo paese.
Come Zbigniew Herbert, praticamente rifugiato in Italia (6) o Czeslaw Miłosz (un altro grande poeta e saggista polacco, esiliato in America, dove vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1980), anche la grande poetessa polacca scriveva per riuscire a sopravvivere e continuare a sperare. Il successo era qualcosa da considerare impossibile in un clima come quello del “socialismo reale”.
La poesia della Szymborska, tuttavia, non era una poesia “politica” nel senso di tutto socialmente “impegnato” che si è soliti dargli in Italia (e non solo). Non attaccava istituzioni e società, modo di governare e dimensione statuale vigente – parlava soltanto degli individui e dei loro problemi di sempre, delle loro angosce e dei loro dubbi, della loro vita e del loro dolore – forse per questo faceva più paura di tanta poesia militante e ideologizzata. In Gente sul ponte, la lirica Torture ammonisce pensosamente che non cambia mai molto nell’esercizio del bio-potere sui corpi:

«Nulla è cambiato. / Il corpo prova dolore, / deve mangiare e respirare e dormire, / ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue, / ha una buona scorta di denti e di unghie, / le ossa fragili, le giunture stirabili. / Nelle torture di tutto ciò si tiene conto // Nulla è cambiato. / Il corpo trema, come tremava / prima e dopo la fondazione di Roma, / nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo, / le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola / e qualunque cosa accada, è come dietro la porta. // Nulla è cambiato. / C’è soltanto più gente, / alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove, / reali, insinuate, temporanee e inesistenti, / ma il grido con cui il corpo ne risponde / era, è e sarà un grido di innocenza, / secondo un registro e una scala eterni. // Nulla è cambiato. / Se non forse i modi, / le cerimonie, le danze. / Il gesto delle mani che proteggono il capo / è rimasto però lo stesso. / Il corpo si torce, dimena e svincola, / fiaccato cade, raggomitola le ginocchia, / illividisce, si gonfia, sbava e sanguina. // Nulla è cambiato. / Tranne il corso dei fiumi, / la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai. / Tra questi paesaggi l’animula vaga, / sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana, / a se stessa estranea, inafferrabile; / ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c’è, c’è e c’è / e non trova riparo» (7).

Il corpo c’è – ed è quello che conta per chi soffre e non vorrebbe, per chi prova dolore per la propria carne martoriata e umiliata e non vorrebbe, per chi si sente costretto a dire ciò che preferirebbe tenere nascosto e che si sente così violentato due volte (nel corpo e nello spirito). Se “nulla è cambiato”, cambia la consapevolezza del fatto che la vita e la morte ormai sono fatti pubblici, eventi politici, momenti sociali di cui si discute e che vengono decisi e determinati in pubblico invece che nel chiuso delle coscienze o negli interieurs personali. Cambia l’idea della “privatezza” dei corpi e si impone la loro esibizione “oscena” nei luoghi della comunicazione di massa.
Il dolore non cambia mai, invece – continua a martellare imperterrito e a far dolere i corpi e le anime in un sempiterno concerto di sofferenze e di morti annunciate.
Il poeta non può fare molto al proposito se non mostrarlo con le sue parole, questo continuo e disumano processo di negazione dell’umanità, questo violento strappo alle regole dell’amore e della civiltà dei rapporti reciprocamente tolleranti. Le parole dei poeti, è noto, servono a poco ma vanno pronunciate lo stesso: la Szymborska non ritiene opportuno tirarsi indietro ma intende continuare a parlare con il tono pacato del suo verso libero, della sua smilza retorica tenuta il più bassa possibile di tono, con la sua ironica capacità di cogliere la verità in maniera leggera, senza sobbalzi, senza esplosioni, senza incendi. Ma l’ironia può essere molto più efficace della rabbia e della trombonesca
esibizione dei buoni sentimenti, così facile nelle buone cause ma inutile per quelle più difficili da portare avanti. I poeti non sono oratori né “tamburini” per una causa. Il loro compito è condividere il dolore del mondo e provarsi a stemperarlo con un sorriso ironico e privo di compiacimento per se stessi. La grande poetessa polacca non si è mai fatta illusioni in proposito e ha continuato a scrivere praticamente fino alla fine, alternando “memoria e desiderio”, contemplazione e senso di distacco.
Come poetessa sapeva bene quello che meritava di essere scritto:

«Scrivere il curriculum. Cos’è necessario ? / E’ necessario scrivere una domanda, / e alla domanda allegare il curriculum. // A prescindere da quanto si è vissuto / il curriculum dovrebbe essere breve. / E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti. / Cambiare paesaggi in indirizzi / e ricordi incerti in date fisse. // Di tutti gli amori basta quello coniugale, / e dei bambini solo quelli nati. // Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu. / I viaggi solo se all’estero. / L’appartenenza a un che, ma senza perché. / Onorificenze senza motivazione. // Scrivi come se non parlassi mai con te stesso / e ti evitassi. // Sorvola su cani, gatti e uccelli, / cianfrusaglie del passato, amici e sogni. // Meglio il prezzo che il valore / e il titolo che il contenuto. / Meglio il numero di scarpa, che non dove va / colui per cui ti scambiano. / Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto. / E’ la sua forma che conta, non ciò che sente. / Cosa si sente? / Il fragore delle macchine che tritano la carta» (8).

Il miglior curriculum di un poeta è la sua poesia (non i premi che ha vinto o le onorificenze che ha ricevuto – anche se spesso fanno indubbiamente piacere).
Ormai Wilena Szymborska non c’è più ma la sua poesia resta. E che la terra le sia lieve!
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NOTE

(1) Cfr. W. SZYMBORSKA, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), trad. it. e cura di P. Marchesani, Milano, Adelphi, 2009.

(2) Questo avveniva nel 1996. Nel 2011, con il titolo di Elogio dei sogni (in un’edizione speciale per il “Corriere della Sera” per la collana “Un secolo di poesia”, vol. 1), il quotidiano milanese ne pubblicava una cospicua antologia da tutta l’opera con un’ altissima tiratura per un testo di poesia contemporanea..

(3) Ad eccezione di Gente sul ponte edito, nella bella traduzione di Piero Marchesani, sempre da Schweiller Libri solo pochi mesi prima della proclamazione della vittoria al prestigioso premio dell’Accademia svedese.

(4) La sua raccolta Due punti, uscita in patria nel 2005 e poi tradotta in Italia da Adelphi nel 2006, sempre a cura di Piero Marchesani, ha venduto in Polonia oltre quarantamila copie in meno di due mesi.

(5) W. SZYMBORSKA, La fine e l’inizio, trad. it. e introduzione di P. Marchesani, Milano, Libri Schweiller, 1997, p. 21.

(6) Su Zbigniew  Herbert si leggano le pagine commosse e, nello stesso tempo, scanzonate che su di lui scrive F. M. CATALUCCIO nel suo Vado a vedere se di là è meglio, Palermo, Sellerio, 2010, pp. 150-164.

(7) W. SZYMBORSKA, Gente sul ponte cit. , pp. 61-63.

(8) W. SZYMBORSKA, Gente sul ponte cit. , pp.68-69.

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