Oggi vi vorrei presentare Stefano Bonfili, giovane laureato in Lingue e Letterature Straniere prossimo ad ottenere un Master in Didattica dell'italiano come lingua straniera all'Università di Urbino. Stefano ha ventotto anni ed è nato a Camerino in provincia di Macerata. E' autore del saggio: “E se Dio concedesse un'intervista?” - Il doppiaggio cinematografico del primo Woody Allen – Montag editore. (Disponibile qui). Fra i suoi sogni, quello di diventare un traduttore professionista.
Stefano ci descriverà la sua esperienza in Messico come docente visitante presso l'università autonoma di Aguascalientes e le sue impressioni su questo grande paese dell'America Latina.
Coraggio Stefano, raccontaci tutto.
Qual era la tua idea del Messico prima di partire? Come ti immaginavi questo paese e la sua gente?
Quando ho saputo di aver vinto una borsa di studio di due mesi in un'università messicana ero in Spagna, a Barcellona, come stagista Erasmus in una Scuola di italiano per stranieri.
Erano i primi di luglio ed erano in corso i mondiali di calcio: ricordo di aver esultato come un tifoso davanti alla mail che mi annunciava la notizia.
Per me, viaggiatore pigrissimo in passato, ma oggi pentito, in via di “guarigione” e desideroso di rifarmi, questa borsa di studio era un'occasione troppo grande da poter rifiutare.
L'Europa è ormai a portata di mano; un viaggio Ryanair di qualche ora e sei in qualsiasi capitale del vecchio continente. Ma il Messico era la possibilità di un'avventura insperata, al otro lado del charco, cioè al di là della pozzanghera, come i messicani chiamano affettuosamente l'Oceano Atlantico.
Poche nazioni al mondo danno l'idea dell'avventura e della fuga come il Messico: pensi subito a immensi spazi desertici interrotti ogni tanto da polverose locande, nelle quali baffoni con il sombrero guardano pigri e indifferenti qualche gringo di passaggio che scappa da un assassino o da un amore finito, come nella canzone di Bob Dylan Romance to Durango e in chissà quanti altri film di Hollywood.
Quando non hai mai visitato un luogo ti affidi innanzitutto agli stereotipi più facili, all'immaginario comune che si crea soprattutto con il cinema, ma che di solito è spettacolarizzato e lontano dalla realtà di quel Paese. Anch'io ero un po' condizionato da questa rappresentazione folkloristica e hollywoodiana del Messico. Ma oltre a tutto ciò, avevo anche qualche lettura alle spalle; per esempio alcuni testi di Pino Cacucci, grande appassionato ed esperto di cultura messicana.
Il Messico per me era questa amalgama confusa di luoghi comuni e di riferimenti più o meno colti: i film di Buñuel e di Sergio Leone, Cielito Lindo, Speedy Gonzales, Pancho Villa e Zapata, le telenovelas sdolcinate, Frida Kahlo e il baffone grasso con il sombrero della pubblicità dell'Estathé.
E poi le notizie che ci arrivano dai telegiornali: il narcotraffico, i sequestri, i disperati che tentano di varcare il confine con gli Stati Uniti, fino agli eventi più recenti degli studenti desaparecidos.
Gli amici per scherzo mi dicevano: “vedi di non farti sequestrare...”. Certo, c'era anche un po' di sano timore, ma sapevo di andare in una città tranquilla e di essere in una situazione privilegiata, quella di europeo e professore ospite di una prestigiosa università.
Com'è stato il processo di integrazione? Quali problemi sono sorti e come li hai affrontati?
Forse risulterà difficile crederlo ma non ho avuto nessun problema degno di nota e il processo di integrazione è stato immediato.
Se proprio devo dire qualcosa, la valigia è arrivata con tre giorni di ritardo! Nient'altro.
Conosco molto bene lo spagnolo, quindi non ho avuto nessun problema con la lingua, se non con qualche espressione gergale che ho subito imparato.
Bisogna dire che tutto era ben predisposto affinché non sorgessero complicazioni: ero ospite presso una coppia di anziani che mi trattavano con grande riguardo ed avevo il vitto pagato in uno dei ristoranti italiani più prestigiosi della città perché i miei professori temevano che la cucina messicana potesse mandarmi all'ospedale! Quando uscivo la sera, ogni tanto per curiosità assaggiavo i piatti locali e benedicevo silenziosamente la saggia decisione dei miei tutor...
Inoltre, da europei, abbiamo anche l'innegabile vantaggio di avere un cambio valuta conveniente e il costo della vita in Messico è molto più basso.
Qual è la tua impressione sui messicani?
Eccellente. Come un po' immaginavo prima di partire; i messicani sono persone molto positive, umili ma con una grande dignità.
Sono semplici, nel senso positivo del termine. Gente estremamente umana e genuina, con un altissimo senso dell'accoglienza che, all'inizio, mi aveva quasi spiazzato.
Un europeo non è abituato a tanta cordialità, crede che la gentilezza abbia sempre un secondo fine.
Devo dire di non aver mai ricevuto tante attenzioni come nei due mesi passati in Messico, da tutti, non solo al lavoro, ma anche dalla gente della strada, tutti pronti ad aiutarmi.
Fare amicizia in Messico è estremamente facile, persino per un orso come me. Inoltre i messicani nutrono un amore sconfinato per l'Italia e l'Europa in generale (tranne che per gli spagnoli), quindi ero trattato con tutti i riguardi e con molta curiosità, come una specie di animale raro e pregiato.
I messicani vogliono sapere come si vive in Italia, credono che tutto ciò che venga da fuori dei confini nazionali sia migliore e, in questo, sono simili a noi italiani.
Tuttavia, rispetto a noi, non hanno la malsana abitudine di lamentarsi tutto il tempo del proprio Paese. Molti messicani, pur amando l'Europa, ammettono di avere qualche difficoltà a relazionarsi con noi europei: ci trovano troppo bruschi e diretti e ciò li offende.
Al contrario, loro hanno un particolarissimo modo di girare intorno alle questioni che a noi risulta esasperante. Ad esempio, ho notato che un messicano non ti dice mai di no, anche quando vorrebbe. Non per falsità, ma per autentico timore di offenderti. A parte questo, e nonostante la mia esperienza privilegiata di straniero servito e riverito possa non essere affidabile, preferisco di gran lunga il carattere dei messicani a quello degli italiani.
Come hai trovato la città di Aguascalientes?
La città di Aguascalientes non ha troppo da offrire dal punto di vista turistico, se si esclude il centro storico con la sua ampia Plaza de Armas e il tempio di San Marcos.Di turisti se ne vedevano pochi in giro. C'è una grande comunità giapponese per la presenza di stabilimenti della Nissan, ma è una comunità molto chiusa in se stessa, com'è tipico degli orientali, e non lega molto con gli abitanti del luogo.
Ci vuole un po' di tempo per amare questa città, appena arrivato non ne ero troppo entusiasta, la trovavo piuttosto anonima. Inoltre, viste le lunghe distanze che separano le maggiori città del Messico, mi sentivo vagamente in trappola.
La sensazione però è durata poco. Come dicevo, ho fatto subito amicizia con persone disposte a farmi da guida, e esplorando Aguascalientes in lungo e in largo in loro compagnia, ho iniziato ad apprezzarla, a conoscere il suo fascino nascosto.
E poi, perdonatemi il luogo comune, ma la bellezza di un luogo dipende molto dal tuo stato d'animo. Gli ultimi giorni Aguascalientes mi sembrava Parigi, non volevo andarmene...
Ora con più obiettività, affermo però che è un ottimo posto nel quale vivere perché, pur essendo abbastanza grande, non è caotica come una grande metropoli, ed e molto sicura e tranquilla.
Esistono dei falsi miti sul Messico?
Domanda difficile. Il problema dei miti e degli stereotipi, non è tanto che neghino la realtà, ma che riducano la complessità di un popolo e di una nazione agli aspetti più folklorici.
I mariachi esistono per i turisti, il sombrero lo portano solo alcuni anziani e così via.
Non è facile scrostarsi di dosso la visione del turista, anche se sei lì per lavoro e conosci la lingua.
La maledizione del viaggiatore è che non può impadronirsi realmente dei posti e delle persone che incontra; si rimane sempre dalla parte di spettatori.
Spesso si vede solo quello che si vuole vedere, per confermare a se stessi le impressioni già radicate, per potersi dire: “avevo ragione”.
Avere dei miti è rassicurante; ci facilitano il giudizio e ci tolgono dall'angoscia dell'ambiguità e dalla fatica di porci domande. Personalmente, vivendo solo due mesi in Messico, ho conosciuto solo la realtà di Aguascalientes e di alcune città vicine, visitate nei fine settimana.
Avevo dei miti sul Messico che, nonostante gli sforzi di metterli sul piatto di una bilancia obiettiva, sono stati confermati.
Ad esempio la religiosità barocca, sanguigna e onnipresente. Me ne sono accorto subito: appena mi svegliavo, sentivo i due padroni di casa in salotto che recitavano il rosario.
Nel tragitto fino alla fermata dell'autobus, passavo davanti ad almeno tre negozi di articoli religiosi. A bordo di autobus, scassati e affollatissimi, gli autisti innalzano quasi degli altari accanto al loro posto di guida: Madonne di Guadalupe, croci gigantesche, invocazioni a Dio per scongiurare incidenti.
E poi c'è una fascinazione e familiarità con la morte che per noi italiani, abituati come siamo a rinnegarla e allontanarla con ogni possibile scongiuro, risulta morbosa e disturbante.
Per esempio quando passavo davanti ai chioschi delle edicole, rimanevo colpito dalle prime pagine di alcune riviste scandalistiche che pubblicavano primissimi piani di gente morta ammazzata o vittima di incidenti stradali.
Noi non siamo ancora arrivati a tanto.
A parte questi casi di cattivo gusto, la morte viene rappresentata in modo stilizzato ed esorcizzante. Non a caso ad Aguascalientes c'è il Museo de la Muerte ed in questa città è nato Jose Guadalupe Posada, incisore delle famose calaveras (teschi) e creatore della figura popolare della Catrina, una donna vestita in ricchi abiti borghesi ma che è uno scheletro (come a dire che la morte rende tutti uguali).
Durante la Festa dei Morti, nei cimiteri, si organizzano banchetti per commemorare il morto e si innalzano altari dove si dispongono oggetti appartenuti al defunto. Si fanno persino concorsi dove si proclama l'altare più bello.
Tutto ciò mi ha molto colpito.
Altri miti confermati sono il loro pessimo regime alimentare - i messicani mangiano veramente male - e la grande passione per il calcio.
Affrontando invece i falsi miti; ce ne sono due che bisognerebbe sfatare: il primo è quello della presunta bruttezza delle messicane, condizionata secondo me dall'immagine di Frida Kahlo e dalle sciagurate dichiarazioni di Tiziano Ferro, la cui impopolarità qui è ormai seconda solo a quella per Hernán Cortés. Ho visto ragazze bellissime e ragazze meno belle, come dappertutto.
Il secondo è quello del messicano pigro che, spossato dalla canicola, passa il tempo a sonnecchiare sotto un albero. In realtà i messicani sono molto dinamici, lavorano dalla mattina alla sera, la maggior parte della gente ha un secondo se non un terzo lavoro.
(Continua...)