Conosco l’estensore materiale di questa proposta, per avermela lui stesso narrata per sommi capi qualche giorno fa al telefono. Non so, ma posso immaginare, invece chi ne sia il sommo ideologo e il potentissimo suggeritore. L’idea che al Pinot Grigio si possa attribuire una funzione testimoniativa e rappresentativa del territorio, anziché quella che gli è oggettivamente più consona, ovvero quella di utility creatrice e motrice di valore e di reddito, senza avere la presunzione di avere la verità in tasca, mi sembra paradossale e perfino incredibile.
Eppure è così. Dopo tutto ciò che si è detto e scritto e pensato a questo proposito. Alla luce di ciò che sta accadendo sui mercati del vino utility, che si stanno convertendo al generoso Trebbiano, abbandonando il Pinot Grigio, per colmare il differenziale fra domanda ed offerta mondiale di vino. Chiedere ai vivaisti, per averne conferma. Dopo tutto questo, e mentre sta accadendo tutto questo, qualcuno pensa alla trentinizzazione del Pinot Grigio. Ci dev’essere della confusione sotto i cieli di Trento. Una confusione primordiale.
Questo qualcuno immagina di rafforzare ancora la strategia pinotista, continuando a scommettere sulle varietà anziché sul territorio; fingendo di non sapere e di non capire che produrre valore (obiettivo sacrosanto) e distribuire reddito (obiettivo ancora più sacrosanto) è cosa affatto differente dalla rappresentazione proiettiva del profilo territoriale della vitivinicoltura. Che, al contrario, ha bisogno di affidarsi a testimoniatori irripetibili e non a merci ripoducibili a basso costo in ogni angolo della terra. Eppure il Trentino abbonda di buone pratiche enologiche capaci, a mio avviso, di assumere questa funzione proiettiva e comunicativa. Un esempio? I grandi metodo classico. O le versioni più evolute di alcuni autoctoni, penso al Teroldego di Paolo Endrici o a quello di Elisabetta Foradori, o al Marzemino di Eugenio Rosi, perfino al Foja Tonda di Armani. O ai bordolesi di San Michele e del Marchese Gonzaga. Possiamo immaginare di affidare l’immagine enologica del Trentino a questi modelli, magari da diffondere anche presso altri produttori? Ci riusciamo a fare questo sforzo immaginativo? O dobbiamo rassegnarci a morire pinotisti, come stiamo morendo, ormai lo abbiamo capito, democristiani? Possiamo sperare che un giorno, ci capiti di andare in giro per l’Italia e per il mondo e nel mentre raccontiamo di essere trentini, possa accadere di sentirci percepiti e riconosciuti come il popolo del TRENTODOC? O dei grandi bordolesi? O di un grande autoctono? E’ troppo? Non credo. Credo, anzi, gliela si possa fare. Con un poca di buona volontà e con un poca di creatività.
Per questo faccio un appello. Un appello che rivolgo a tutti. E che rivolgo apertamente a chi può e a chi so, forse, condividere almeno in parte questo mio punto di vista; lo rivolgo ad Adriano (Orsi), ad Albino (Armani), ad Andrea (Faustini), ad Angelo (Rossi), a Carlo (Guerrieri Gonzaga), a Diego (Schelfi), a Elisabetta (Foradori) a Enrico (Zanoni), all’altro Enrico (Paternoster), a Leonello (Letrari), a Lorenzo (Cesconi), a Luigi (Togn) ai Lunelli (Ferrari), a Mario (Pojer), a Nereo (Pederzolli), a Paolo (Endrici), a Tiziano (Mellarini): Fermateli! Fermate i trentinizzatori del Pinot Grigio. In nome di Dio fermateli: non vogliamo morire democristiani (pinotisti).
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