In psicoterapia non esistono “buoni orientamenti” ma solo “buoni terapeuti”: l’esempio della Mindfulness

Da Psiconauta

Ammetto che nei confronti della cosiddetta mindfulness ho sempre avuto sentimenti contrastanti. Ricordo che verso la fine degli anni ’90 ce ne parlò diffusamente il nostro insegnante di psicoterapia psicoanalitica presso la scuola di specialità in psichiatria di Genova, il Dott. Roberto Speziale-Bagliacca, in termini entusiastici descrivendola in termini “incorporazionisti” ovvero come aggiunta ad altri metodi. Negli anni 2000 è iniziata ad arrivare alla ribalta come potenziale rimedio all’ansia, e devo dire che ho storto un po’ il naso quando è diventata un fenomeno di massa qualche anno or sono grazie ad un ottima manovra di diffusione pubblicitaria che l’ha spacciata essere utile per molte patologie, mentre in realtà è la CBT ad essere validata  come efficace e non la mindfulness, poiché essa avrebbe adesso la pretesa di essere la terza generazione della Terapia Cognitiva (Third Generation CBT – Cognitive Behavioral Therapy). Francamente oggi assisto all’inevitabile contraccolpo: sto leggendo un’infinità di articoli che criticano la mindfulness, definendola una versione superficiale e, soprattutto molto vendibile, del buddismo. Un nuovo insulso giocattolo di una classe media nevrotica, ignorante, priva di passione e dedita alle “seghe mentali”. Tra parentesi la mindfulness ha brillantemente ricodificato l’espressione “sega mentale” in un geniale ed apprezzabile “eccesso di pensiero” o anche “neoplasia cognitiva” (??!) in modo tale che possa essere fatta questa diagnosi senza risultare antipatici o volgari. Capisco anche, di questi tempi, i timori di chi immagina che insistere sulla “consapevolezza” e sulla meditazione possa delegittimare una rabbia giustificata, a livello razionale e sociale, verso il mondo e fornire sbagliati elementi per poter rispondere alla fatidica domanda: “È il mondo che deve cambiare, o sono io?”. Da vecchio fan del Punk ricordo bene che Johnny Rotten cantava che “la rabbia è energia”. In realtà tutte queste premesse sulla mindfulness, in realtà, potrebbero essere fatte anche per la psicoanalisi, la terapia sistemica, il colloquio motivazionale, etc. etc. ovvero ogni orientamento psicoterapico ha degli aspetti deboli (anche se la mercificazione e la pubblicizzazione sono un lato particolarmente odioso delle professioni d’aiuto). Il punto è quello che ho già espresso in un altro post, ovvero come si fa a sapere se un terapeuta è bravo oppure no? Perché è questo il vero problema. A esempio un bravo terapeuta sa se il suo orientamento è adatto o meno al problema che il cliente sta portandogli. Sa se la sua preparazione o il suo assetto psichico potrà essere efficace per una data persona. Addirittura potrà comunicare al cliente che alcuni quadri clinici richiedono interventi solo farmacologici o approcci integrati psicoterapeuta-psichiatra (che orrore!). Quanti si muovono in questa maniera? E quanti dubbi per le persone che necessitano di aiuto per il disagio psichico. Di sicuro la risposta non arriverà dalla forte spinta pubblicitaria della mindfulness o, in futuro, da qualche altro orientamento, dato che riuscire a far validare un certo orientamento terapeutico (e il come ciò avvenga è tutto da discutere) non trasformerà un terapeuta inefficace in uno ottimale solo per il fatto che aderirà all’orientamento validato e, lasciatemi dire, così ben pubblicizzato.