In raffinata conversazione

Da Sharatan

Colui che possiede un occhio di bassa lega non è capace neppure di riconoscere il brillare dell'oro perciò, egli potrebbe attribuire all'anima taoista, una sensualità volgare e grossolana che male si adatta all’ideale di eleganza e di signorilità del feng liù: ma è solo quell’occhio grossolano e volgare che non è adatto a contemplare un ideale supremo, in cui si trascendono “forme e fattezze“: e questa è amara riflessione di Fung Yu Lan nella sua “Storia della filosofia cinese.”
Invece un occhio molto raffinato sa avere intuizione di ciò che sta al di là del mondo, poiché vede l’ordine armonico dell’universo, e questo acuto sguardo è fondamentale per apprezzare il livello sublime del vivere secondo il concetto feng liu. Chi riesce ad avere questa elevata visione, può entrare nel vero spirito del taoismo, in cui vive la più sottile sensibilità al piacere, e in cui coabitano le necessità estetiche e spirituali più elevate e raffinate, e non semplicemente quelle sensuali.
Il “Shih-Shuo Hsin-Yu” cioè “Le relazioni contemporanee dei nuovi discorsi” è un’opera di Liu Yi Ch’ing (403-444) in cui vengono riferiti brani di “ch’ing t’an” cioè di buona e raffinata conversazione. L’arte di conversare consisteva nell’esprimere il pensiero più eletto, che in genere era taoista, nel linguaggio più raffinato e con il periodare più colto e forbito, al fine di deliziare lo spirito e l‘anima degli conversanti.
Per questa sua natura così preziosa, una tale arte non poteva essere sostenuta che tra amici giunti ad un elevato livello culturale e spirituale: perciò era considerata una delle più squisite attività intellettuali. Lo Shis-shuo è una raccolta di queste squisite e raffinate conversazioni tenute dai più famosi esperti, e ci offre lo specchio di coloro che, nel corso del 3. e 4. sec. d.C., furono seguaci delle idee di feng-liu, e amanti dell’impulso “del vento e della corrente.”
E’ in questa concezione di suprema eleganza che si sono armonicamente fuse le due anime cinesi, cioè l’incontro del “rigoroso” confuciano e del “sognante” taoista, perchè nel feng-liu è la radice comune delle due concezioni: è qui che l’anima cinese dimora nella sensibilità riunita delle sue complementarità. Se il confuciano dello stile Han si nutre di dignità e di grandezza, e lo stile dei signori Ch’in della radice taoista vive di eleganza e libertà ebbene, queste qualità si fondono e originano il feng-liu.
Poichè la mentalità cinese ama le migliori pratiche di buona vita, e non ama operare la rinuncia, privilegiando l'incremento alla perdita, è per questo motivo che riesce a concepire l'unione per reciproca ammirazione dei due modelli di anima che nutrono il suo spirito più elevato: perciò avviene una fusione dell'anima del confuciano e del taoista, in cui dimora lo Spirito delle reciproche origini.
Storicamente, tutto ciò avviene perché durante la dinastia Chiu era molto ammirata la bellezza fisica e spirituale delle grandi personalità, ad es. Chi K’ang era famoso appunto per la sua grande personalità, perciò taluno lo paragonò ad una montagna di giada, e altri ancora gli attribuirono l’eleganza del pino (Shis-shuo, cap. 14): questo è un esempio di feng-liu.
Saper trascendere la discriminazione “delle forme e delle fattezze” significa avere un sentimento di uguaglianza e di non discriminazione fra se stessi e le cose della natura: questo sentimento tanto elevato è essenziale alla comprensione del feng-liu, e alla manifestazione dello spirito artistico. Il vero artista deve saper estendere i propri sentimenti a ciò che rappresenta, e deve saper esprimere l’oggetto tramite una mediazione personale: in questo senso l'artista è un medium, cioè un ponte.
Ora possiamo capire perché nutrire l’energia, nella concezione cinese, diventa una vocazione dell’essere umano, che ha la responsabilità nella cura che prende nel mantenimento e nel dispiegamento del suo potenziale di vita: così possiamo capire meglio le espressioni taoiste come “nutrire l’essenza” o trovare la “quintessenza” o “coltivazione del soffio” o “del fiore” o “dell’energia“: tutto ciò significa preservare il “filo tagliente” dell'energia vitale.
Dalla cura che riserviamo al nostro filo energetico proviene la restaurazione delle nostre forze vitali, perciò sappiamo reintegrarle a mano a mano che si spendono, ma sappiamo anche ravvivare le nostre capacità interiori depurando il nostro essere fisico, e sappiamo aguzzare il nostro mordente e mantenerci in forma, ma una forma che non si riduce al solo corpo fisico.
Il cibo ideale per alimentare la vita è “nutrire la calma” che non significa piantarsi come un palo e rimanere senza sentimento, ma piuttosto “nutrire e recuperare le forze vitali” con la calma e nella calma; quindi significa concedersi il tempo per il recupero, e non farsi fagocitare dalla fretta. E' sempre necessario riposarsi e rasserenarsi, ed è indispensabile anche “ricrearsi” per potere uscire dagli assilli del mondo: è così che possiamo ricostruire le nostre energie vitali.
A ben vedere, queste formule taoiste non sono affatto delle concezioni astruse o delle elucubrazioni psicologiche ma sono delle rubriche preziose da cui impariamo che tutti i nostri aspetti umani sono inseparabili, e perciò la natura umana diventa preziosa in virtù di questa inseparabilità.
Ma questo è ciò che si crede in Cina, e nella pratica del taoismo mentre, nella mente occidentale tale pensiero viene ucciso da Aristotele nell’“Etica a Nichomacheo, (1,6) in cui afferma: “Il solo fatto di vivere e, con evidenza una cosa che l’uomo condivide anche con i vegetali: ora, quel che noi cerchiamo, è quel che è proprio dell’uomo. Dobbiamo dunque lasciare da parte la vita di nutrizione e di crescita.”
Lo sviluppo dell’uomo, per noi occidentali, è solo frutto del pensiero e della conoscenza cioè del nous e del logos, perciò nutriamo una concezione dell’essere come quella di un'entità separata, con una funzione generica e inferiore di sviluppo e di crescita. E‘ qui che nasce la concezione di supremazia gerarchica tra le forme varie vitali, con una gerarchia dell’importanza degli esseri senzienti: questa è l’origine di una concezione negativa che la Cina non ebbe mai.
Nella Cina antica, contemporaneamente ad Aristotele, vive il saggio Zhuangzi che teorizza sull’arte medica cinese affermando che il “seguire” o “perseguire” la vita non è una via senza uscita o senza fine, ma è un seguire l’arteria principale “du” che sale al centro della schiena come la nostra spina dorsale, scorrendo dal basso fino alla nuca, in cui passa in modo sottile il soffio della respirazione e che, perciò, funge da “vaso” governatore dell’energia del corpo.
Questa arteria fa comunicare l’influsso grazie al suo vuoto interno, salendo dalla base al vertice, senza deviare nell’uno e nell’altro lato; perciò essa è considerata la Linea di vita che deve essere “sposata” o armonizzata alla buona regola o buona condotta. E’ soltanto a questa condizione, dice Zhuangzi, che possiamo “conservare la nostra persona” ossia “rendere completa la nostra vitalità,” e andare felicemente a vele spiegate fino al termine dei nostri anni.
I cinesi mettono al centro della loro condotta di vita la vitalità organica, poiché non tengono in alcuna considerazione un termine di immortalità conquistata con un “Lassù” superiore a cui accedere tramite la Maestria nell’Arte della Fuga.
Gli antichi cinesi non si concedono tale via di fuga perchè nello spirito taoistico-confuciano, vi è sufficiente coraggio per affrontare la sfida di una vita in cui l’unico elemento che possiamo considerare è quello della vita individuale che si manifesta nel corpo e tramite di esso: essi mantengono sempre la loro parola.
Secondo la concezione cinese, alla morte, alcune anime salgono verso l’alto e si fondono con il soffio yang oppure, scendono nella terra, per ricongiungersi allo yin ma questa, non è una vera e propria concezione di sopravvivenza dell’anima umana perché, nella Cina antica, non si coltiva l’orgoglio personale ma si nutre solo l’orgoglio della stirpe, della famiglia e del clan. E’ per questo motivo che la “salvezza” intesa in senso occidentale, mediante la conquista della “Vita eterna” per i taoisti non può significare altro che l’ottenimento di “una lunga vita,” cioè la conquista dell’immortalità materiale del corpo fisico.
Zhuangzi ci svela un sogno taoista che consiste in un alto ideale, secondo il quale, se non siamo di questo mondo siamo comunque sempre della nostra vita, ed è questa nostra vita che abbiamo il dovere di nutrire. Zhuangzi narra di geni del monte Gushi che si nutrono di solo vento e di rugiada, o della Vegliarda che aveva la pelle splendente come neve. Egli racconta d'Immortali che conservano la freschezza e la delicatezza di una vergine con il colorito da bambino e che, al termine di mille anni, ormai stanchi di questo mondo, cavalcano le Nuvole bianche e volano fino al Palazzo del Cielo, che è il regno di ogni delizia e di ogni felicità.
Per arrivare allo stato Hsien c’è bisogno di una vita ovvero di un Tao, che viene indicato con il termine “shou” che significa “saper conservare depurando.” I taoisti credono che sia merito della placidità con cui andiamo a considerare gli elementi esterni, che è una pratica che viene conquistata con la gradualità, se noi possiamo eliminare il tumulto del cuore, e il rumore assordante del mondo esteriore: è questo il significato della longevità, che significa solo “nutrire la vita.”
Buona erranza
Sharatan

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