Io parlo di tante facezie e di alcuna ho conquistato una competenza specifica per diventare, di quella, un Pontefice Massimo. E quindi penso: quanto reggerà la presunzione del dire avendo contezza che il dire non sia patente vaniloquio, un parlare che si raggruma in una sorta di «incistamento psicopatologico»*?
Dovrei esercitarmi a scrivere racconti, ma la mia fantasia è limitata dalla contingenza. Non riesco a mettermi nei panni di, senza prima aver avuto, almeno per un attimo, la sensazione di esserci stato dentro quei panni.
Oggi ho visto un culo perfetto: sarei potuto stare ore a contemplarlo, ma è difficile mettersi a guardare un culo senza passare per un maniaco. Avrei dovuto aver la faccia tosta di andare dalla proprietaria (del culo) e chiederle se potevo guardarglielo solo per una ragione contemplativa, tipica dell'artista («Lei è un artista? «Beh, sì, in un certo senso...») per pura emozione estetica, senza sbavare o sognare chissà quali palpeggiamenti lubrichi.Eppure, ecco, io sono sicuro che, se avessi potuto guardarlo senza tema di passare per un porco dallo sguardo insistente, ma come d'uno che bellamente ama guardare l'orizzonte al sorgere o al tramontare del sole, io stasera avrei potuto scrivere un racconto mettendomi nei panni della proprietaria.Chissà cosa starà facendo adesso, dove sarà seduto, se avrà consapevolezza di essere così espressivo.Provo a toccarmi il mio, a guardarmelo allo specchio dopo la doccia, ma non è la stessa cosa, no. Ciaf, ciaf: anche lo spanking mi sembra troppo monocorde...
Per ritornare al punto: ci sono giorni, sempre più frequenti, in cui mi sembra di non avere più granché da dire, e che quello che poi alla fine scrivo sia frutto di un pensiero che rimane essenzialmente in superficie. Non che lo scavo mi sia interdetto da chissà quale sovraintendenza ai lavori miei privati, impedendomi, di fatto, un ulteriore saccheggio del mio io. È che, ad ogni nuovo carotaggio, più che la mia interiorità, esce la superficie delle cose, ovvero la mia pacifica condizione sociale di proletario da mille e poco più euro al mese, con un tetto, il vitto, l'auto e le vacanze, alcuni svaghi (tipo questo) e un senso di libertà superficiale, che mi tiene qui, sospeso, nel procedere di una vita che, fortunatamente, non sta a piangersi sopra perché avrebbe voluto essere un'altra - e allora a cosa è dovuto questo strano senso di sopportabilissima inquietudine?Non lo so esattamente. Sto (ri)leggendo Il Castello. C'è questa lettera che K., l'agrimensore, riceve dai suoi datori di lavoro.
«Egregio signore: come Le è già noto, Lei è assunto al servizio del signor Conte. Il Suo superiore immediato è il sindaco del paese, che Le comunicherà le istruzioni opportune e l'ammontare del suo salario; a lui Ella renderà conto di tutto. Da parte mia io non La perderò di vista. Barnabas, il latore della presente, verrà da Lei di tanto in tanto per informarsi dei Suoi desideri e trasmettermeli. Nei limiti del possibile, mi troverà sempre pronto a soddisfarli. Mi preme molto che i miei operai siano accontentati».Franzi Kafka, Il Castello, traduzione di Ervino Pocar, Meridiani-Mondadori.
Ecco qua, forse: esiste un Castello indefinibile al quale non è dato accedere, perché la vita fuori è soddisfacente, perché noi operai (nel senso estensivo del termine) siamo accontentati.E il mio, il nostro forse, timore più grande è che lo stare in superficie sia dovuto alla paura di venire isolati, osteggiati da tutti coloro che abitano (come me, come noi) fuori del Castello - e di restare soli, poi, a rimpiangere le dolcezze della vita che ci sarebbero precluse, perché facciamo troppe domande e non accettiamo, mansueti, l'ordine costituito.
Ma ripeto: forse.
* cit. da Malvino, in riferimento all'argomentare pannelliano
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