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In Their Eyes, lo Sguardo Animale (N°1) : recensione "War Horse"

Creato il 11 gennaio 2015 da Giuseppe Armellini

Prima puntata di una nuova rubrica.Giovanni è una persona speciale.E il suo amore per gli animali lo stesso.Non è uno di quei nuovi animalisti, vegani o antispecisti che hanno come prima istanza criminalizzare gli altri, fare proseliti o farsi belli.Giovanni lavora con la testa, con i principi, con il dialogo. Il suo non è un blog facile, immediato, leggero.Se ci entri devi esser pronto ad accendere il cervello e mettere in discussione qualcosa di te. Benvenuto.

Siamo animali e non lo sappiamo, siamo attorniati da altri animali e non ce ne accorgiamo. Eppure, ci sono molti film, dove gli animali sono presenti e in modo interessante. Non solo come protagonisti diretti, o come metsfore, ma anche come 'condizione esistenziale', che spesso viene vissuta - nel bene e nel male - anche da umani e tra umani. Ci sono migliaia di pagine e decine di libri e riviste che parlano del rapporto tra umani e altri animali. Li terrò presenti nella scrittura di queste recensioni, ma cercherò di non farli troppo pesare, anche se un richiamo a titoli o spunti a volte si renderà indispensabile - e spero che lo prenderete come un suggerimento per approfondire, se la visione vi avrà stuzzicato.
Jared Diamond scrive (in “Armi Acciaio e Malattie”), che i cavalli erano le jeep e i carri armati del passato. Forse allora non è un caso che i cavalli e le automobili siano presentissimi nell’intera cinematografia made in USA, dove rappresentano a volte una vera e propria ossessione. In War Horse di Steven Spielberg, li ritroviamo entrambi, o meglio ritroviamo il cavallo e la macchina.L’automobile è sì presente, ma si tratta delle prime automobili di inizio XX secolo, già efficaci nel loro funzionamento, ma non ancora esteticamente dominanti.E allora, per il cavallo si crea una situazione di legame a filo doppio con la macchina: un legame con la macchina bellica, dove è quest’ultima a ottenere tutti i vantaggi di questo legame, mentre al cavallo non rimane altro destino che sopportarne il rumore incessante, o morire di sfinimento trascinato a terra dal peso del ferro, o travolto dai cingoli inarrestabili. La macchina domina, facendo della carne viva dei cavalli e dei loro padroni umani, un  tutt’uno di membra devastate e ridotte a cosa morta.Non c’è solo questo nel film (notevole per altro per la ricostruzione storica), che si propone come storia dal punto di vista del cavallo. In realtà, il punto di vista rimane sempre quello dell’umano.Poco sopra ho scritto del rapporto che accomuna i corpi degli animali all’asservimento della macchina: i soldati umani che vengono maciullati, i soldati equini che vengono schiacciati. Difficile pensare qualcosa di più violento e crudele, di più aggressivo verso la intrinseca fragilità della carne dei corpi. Eppure, nel film, questo viene solo suggerito, ma quasi mai mostrato: solo nella scena della sortita nella terra di nessuno tra le trincee, si vedono corpi umani cadere crivellati dai proiettili, o infilzati dal filo spinato; ma, appunto sono visioni subliminali, quasi coreografie, intraviste mentre la macchina da presa rimane concentrato sulla corsa del protagonista, che rimane incolume quasi fino alla fine. In questo, riconosco la abilità registica di Spielberg, che comunque in questo film non mi pare sia riuscito a ricreare alcuna forma di pathos, di emozione (se non sprazzi sporadici, legati alla scrittura, di alcune battute che sanciscono il rapporto iniziale tra Joey, il giovane cavallo, e Albert, il giovane umano, che chiama “amico” il puledro e gli promette che lo ritroverà, mentre la Guerra incombe su tutti). Le morti importanti – quelle delle persone che di volta in volta interagiscono con Joey e col suo compagno equino di avventura - avvengono sempre appena fuori campo, rievocate solo dall’eco degli spari, di volta in volta nascoste dalle pale di un mulino, dal passaggio di un soldato, da una collina, o suggerite dal volare lontano di un cappello, che prima era in testa a un uomo. Le morti, sono considerate ‘oscene’, letteralmente, fuori dalla scena, fuori dal campo visivo (sto pensando al concetto di osceno, raccontato da Coetzee nel suo libro su Elizabeth Costello). Anche la morte del compagno cavallino di Joey ci viene solo raccontata, ma non mostrata.L’occhio vuole la sua parte, ma in questo film, la sua parte non deve avere a che fare con la morte, né con la brutalità: tutti quelli che via via, nel correre della Guerra, hanno a che fare con Joey, non perdono occasione – se rivestono ruoli che suggerirebbero altrimenti – di dichiarare che ‘I cavalli vanno addestrati, ma con gentilezza”. Spielberg non vuole spaventare il pubblico dei bambini? Piuttosto, penso che – magari a livello inconscio – voglia dare una autorappresentazione idealizzata degli umani, per quel che concerne il loro relazionarsi con gli altri animali, simboleggiati dal cavallo – figura centrale dell’immaginario cinematografico praticamente dagli albori, come ci raccontano Massimo Filippi e Emilio Maggio nel libro “Penne e Pellicole” (ed.Mimesis). Vero, all’inizio troviamo anche una intraprendente oca, alla quale, chissà perché, viene assegnato un ruolo di intermezzo buffo, o comico. Tutto antropocentrico, insomma, e niente di nuovo sotto i riflettori. La visione dell’oca ‘deve’ essere buffa, la visione del cavallo ‘deve’ essere epica, eroica, accorata, a metà strada tra Dickens e l’Odissea, magari, con un pizzico di Hemingway e di Steinbeck.Quel che si vede, se si vuole – come qui vorrei fare, in effetti – rivedere il film inforcando i miei occhiali non specisti è invece tutt’altro. Il rapporto uomo-cavallo, infatti è fortemente sbilanciato, perché in ultima analisi sono gli umani del film che detengono il potere di decidere della vita, delle azioni, della fatica, della gioia, della libertà e della morte del cavallo. Lo chiamano amico, lo chiamano compagno, lo chiamano aiutante, ma sotto tutti questi bei nomi, si ripete sempre lo stesso schema, di imposizione di azioni ‘altre’ dai desideri e dall’indole equina, azioni che sono del tutto all’interno del cerchio dell’umano, e sono mosse da sentimenti come orgoglio, ira, senso dell’onore, ostilità, rivalità, laboriosità, competitività tutta tra umani, ma espressa giocando anche con strumenti che strumenti non sono – perché sono altri esseri viventi, altri individui, che appartengono a specie animali diversa dall’animale umano. Questo potere è presente sempre, ma Spielberg si preoccupa sempre di darcene una spettacolarizzazione estericamente accettbile, sopportabile.  Il potere che l’umano esercita verso il cavallo, è qui molto ben spiegato, e mostrato, attraverso l’uso dello sguardo: noi guardiamo umani che guardano (per giudicarli, per desiderarne il possesso) cavalli, in una catena di eventi pressoché infinita e all’infinito ripetibile, la catena che inizia col primo sguardo all’apparenza innocente del giovanotto verso il puledro e che continua con forme sempre più obbliganti e pesanti di addestramento, che ha l’obiettivo di far fare al cavallo quello che vuole l’uomo. Non importa se questo addestramento avviene in un contesto iniziale di reciproca conoscenza, o di gioco (come, più avanti nel film, con la ragazzina Emily): è pur sempre un imporre dall’esterno al cavallo quello che gli umani pensano che sia giusto per lui, o che lui debba fare.Che poi il cavallo lo faccia, sempre di buon grado, è una considerazione che potrebbe portarci molto lontano sul sentiero delle riflessioni sull’animalità (in questo caso, accettazione attiva e curiosità collborativa), ma che qui e ora non mi metto a percorrere. È un sentiero davvero molto lungo, e panoramico, anche, pur essendo complesso e persino arduo.Rimango sul film: gli sguardi – altra abilità visionaria di Spielberg, ma che in altri film ha saputo ottenere risultati di gran lunga più emozionanti – sono spesso ‘filtrati’ da oggetti (staccionate, aratri, aggeggi bellici, che in un gioco di continue anticipazioni e rimandi, tessono il racconto dell’uso del cavallo da parte dell’umano. Non c’è mai un rapporto-sguardo diretto, senza alcun tipo di secondo fine, nemmeno quando l’umano è del tutto benevolente. Il cavallo, invece, guarda al mondo, sempre in modo diretto, limpido, senza secondi fini, che non siano l’agire nel mondo. In questo rapporto dispari, al cavallo non viene mai data la possibilità di sottrarsi alla richiesta di interazione con l’umano e con ciò viene annullata l’essenza della libertà (perché non c’è libertà per me, se non ho la possibilità di sottrarmi a quanto mi viene richiesto). O meglio, al cavallo rimane la possibilità della estrema sottrazione, la propria morte, sfinendosi nel fango attaccato a un cannone, o impigliandosi nei reticolati di ferro.Per finire: uno dei pochi momenti di autentica comunicazione tra il cavallo e il ragazzo, si ha quando quest’ultimo ha perso la vista, quindi ha perso il potere dello sguardo, e deve affidarsi solo alla memoria, alle mani, agli odori, abbandonandosi alla fisicità dolcemente possente del cavallo, e permettendo alla propria animalità di emergere, per entrare finalmente in empatia con questo amico-cavallo. Dura poco, e però, e quasi subito Joey torna a rivestire il ruolo di cavallo ‘speciale’, che aveva assunto agli occhi degli umani, prima tirando l’aratro con tenacia, poi affrontando la morte con spirito di sacrificio e coraggio eroico (qualità umane, che lo umanizzano e ne smarriscono la tipicità equina).Tutto finirà come in un western: il cavallo è ancora oggetto di compravendita, e alla fine viene donato dal nuovo padrone al ‘legittimo proprietario’, Albert. I due,  col sole al tramonto faranno  ritorno a casa, per un abbraccio finale e il rientro nella famiglia, osservata dal Joey, ormai cavallo-simbolico.

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