in time

Creato il 22 febbraio 2012 da Albertogallo

IN TIME (Usa 2011)

Un pretesto semplice semplice, come spesso accade nei film di fantascienza: in un futuro prossimo la moneta corrente è il tempo, che serve per comprarsi la roba (una corsa in bus vale due ore, tanto per dire) e ovviamente anche per sopravvivere. A 25 anni si smette di invecchiare, e l’unico modo per non soccombere è accumulare tempo – secoli, anni o anche solo qualche minuto per tirare avanti ancora un po’. Ma è un mondo molto ingiusto, e se c’è chi possiede secoli di vita c’è anche chi (la maggior parte della gente) deve sfangarsela giorno per giorno.

Ora, ideuzze stimolanti di questo genere sono sempre insospettabilmente pericolose per chi vuole fare un film, perché il rischio è che l’interesse dello spettatore scemi dopo i primi minuti di pellicola, quando, finito lo stupore iniziale, ci si accorge che il resto è solo fuffa. Con In time – che, metto le mani avanti, nonostante qualche spunto carino è veramente un filmaccio, vedremo poi perché – questo accade e non accade: se, da un lato, è evidente che solo il primo quarto d’ora di pellicola è in qualche modo necessario (un modo anche abbastanza facile e banaluccio, e in ogni caso l’antifona è chiara dopo due-scene-due), dall’altro devo dire che un paio di svolte narrative carine in fondo in fondo ci sono. Will Salas viene coinvolto nell’omicidio di un riccastro (ovvero di un tizio con un sacco di tempo) stanco di vivere. Ma è innocente. Messo alle strette, rapisce Sylvia Weis, figlia di un multi-miliardario (ovvero un tizio con un sacco ma un sacco di tempo) che però, in preda alla più classica delle sindromi di Stoccolma, si unisce alla lotta di Will contro le ingiustizie della società, ingiustizie che, come nel nostro mondo reale, riducono il pianeta a una sterminata accozzaglia di gente povera (di tempo) governata da pochissima gente ricca (sempre di tempo).
Cosa succede allora?

Succede che i due diventano una sorta di versione moderna e ipersessualizzata di Bonnie e Clyde (che già nel film di Arthur Penn e nella canzone di Serge Gainsbourg non è che non fossero sensuali), cominciando a rapinare banche e a distribuire ai poveri tutto il tempo che è sempre loro mancato. A inseguirli è un altro personaggio interessante, Raymond Leon, poliziotto proletario dal retrogusto quasi pasoliniano (ricordate quando PPP diceva che tra i contestatori ricchi e viziati e i celerini costretti ad affrontarli lui stava dalla parte dei secondi, veri rappresentanti della classe più umile?). Non è male questa parte centrale della pellicola, venata di pseudocomunismo all’americana e all’acqua di rose ma quasi sincero, in cui si scorge una seconda trovata narrativa laddove spesso opere commerciali di questo genere si fermano a quota uno.
Bene, direte, e allora perché In time è un filmaccio?

È presto detto.
Innanzitutto perché questo film è girato con un’incompetenza da far venire i capelli dritti: Andrew Niccol avrà anche diretto il buon Lord of war, ma qui dimostra tutta la sua inguaribile mediocrità estetica, riuscendo persino a coprirsi di ridicolo con un incidente automobilistico a suon di modellini che nemmeno un bambino ci cascherebbe – roba che gli effetti speciali dei b-movie anni Ottanta al confronto sembrano George Lucas, e se tiro in ballo George Lucas come esempio virtuoso vuol dire che siamo messi proprio male. Il secondo motivo sono i dialoghi, stracolmi di banalità e luoghi comuni e spesso involontariamente ridicoli. Terzo: i due protagonisti. Pessimi entrambi. Justin Timberlake e Amanda Seyfried sono due attori che cani è dir poco, messi lì soltanto per il loro bel faccino e completamente incapaci di dare ai loro personaggi il minimo spessore o personalità. Per carità, non dico che Amanda non si faccia guardare volentieri (cfr. foto in alto), ma è talmente evidente il tentativo di sessualizzare ogni singolo fotogramma con minigonne, tacchi alti (persino durante gli inseguimenti…), labbra a canotto e tette in bella vista che alla fine il tutto non può che risultare veramente ridicolo. Il film l’ho visto doppiato, ma ho come l’impressione che stavolta sia stato un vantaggio anzichenò.

Alberto Gallo



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