La soavità di un plasir, che provenga da un lavoro manuale, attento, antico o trovi sui suoi passi la grande produzione industriale(la Perugina che sponsorizza il suo
centenario con il film, placement a go-go), imprime all’animo un risveglio, un
momento di gaudio e di rilassamento e accensione sublime dell’intera sfera
sensoriale (Piccoli momenti di estasi, dice un compassato Marcorè).
Il cinema collima il soave assaggio amoroso al sensuale risvegliarsi del corpo.
Moretti si cospargeva in “Bianca” di cremosa nutella; Tim Burton distribuiva
barrette dai doni-punizione nel remake de “La fabbrica di cioccolato”, bon
bon, meringhe, budini, fregi, pasticcini e mezzelune illuminavano i sontuosi
banchetti della Marie Antoinette di Sofia Coppola; enormi pasticci e
cappelli riempiti di ogni grazia divina curavano i problemi emotivi della
Keri Russel di Waitress.
Tanti film, tanti cocktail al cacao. Potremmo andare avanti per ore, ricordando le tentazioni di "Chocalat" di Hallstrom, o l'intro-omaggio della "Finestra di fronte" di Ozpetek, ma sarebbe peggio per le nostre linee e la nostra salute.
Il binomio cinema-cioccolato non sempre è perfetto e accade che, alla delizia, subentri un senso di nausea vomitevole.
“Lezioni di cioccolato”, metaforicamente, è un gianduiotto (dell’Italia nordica, affine al clima transalpino) ripieno di granella di noci e pistacchi sulla falsa riga della ricetta egiziana (e quindi mediterranea) del baklava. È un cioccolatino di nocciole di Montacuto infarcito di datteri del Nilo.
Film leggero, ha un tocco dolcificante senza eccedere nel glucosio e intrattiene e diverte nei singoli fotogrammi, nelle storie di poco anonimi provetti gourmet, che tinteggiano la loro vita di emozioni non
molto distanti dall’Amelie-pensiero (tanto che la Placido scimmiotta il “personaggio” Tatou).
Gara sul dolciume perfetto (con scrosci di prevedibilità finale), interviene sul capitalismo e la sua degenerazione (salvo, come detto, essere prodotto per volontà di una major del settore),accenna ad una miscellanea di culture, dipinge paesaggi
irriverenti e sagaci di amori sbocciati e amicizie intessute, evitando i facili isterismi da rimpatriata psicoanalitica, si infittisce di dialoghi sempre più rifiniti e di battute calzanti. La diatriba è tra un povero operaio dai sogni di
pasticciere ed un codardo imprenditore edile cialtrone.
Luca Argentero è un giovanotto dagli occhi profondi che sa dosare ironia e quel senso di sbadataggine che ne fa un latin lover della porta accanto, peccato che faccia sempre lo stesso personaggio; Hassani Shapri “occhieggia”, nei limiti di uno stereotipo. Per passare una serata "dolcissima" e briosa va bene, ma rivolgetevi ad altro e non alla Cattleya per produzioni di impegno. I dolci, si sa, vanno presi a piccole dosi. La carie è in agguato, e alla fine il gusto è assuefatto, come i film sul tema, simpatici, se non eccessivi, ma troppo simili l'uno all'altro per avere un certo peso. Meglio rivolgersi, casomai, ad un menu completo, di spessore e di liberazione spirituale, sull'onda del capolavoro "Il pranzo di babette". Ma siamo al Capolavoro di sintesi di cinema-cibo. Al Capolavoro cinematografico in genere. A questo film non possiamo chiedere altro che un "lasciapassare" temporale di distrazione.