“Sono bugie, siete tutti ipocriti”, dice ai genitori, uno dei due piccoli protagonisti. Non ha torto, il piccolo danese di nome Christian (William Johnk Nielsen), tornato da Londra, dopo la morte della madre per cancro. Il padre non fa che lavorare e lo catapulta nella nuova scuola senza prendere in considerazione il doppio trauma che il bambino sta vivendo.
Ma scopriremo presto che il bambino non è affatto bisognoso di cure. Mosso da un istinto di giustizia, ispirandosi forse a pellicole come Giustizia privata, il ragazzino aggredisce il bullo di turno con una pompa per biciclette e lo minaccia di morte con tanto di coltello alla gola. Quando il padre gli chiede perché lo ha fatto, risponde con candore: “Così nessuno proverà più a toccarmi”. Il suo amico Elias (Markus Rygaard), svedese timido ed introverso, soprannominato faccia da topo dai bulli della scuola, ha i genitori separati. Protagonista del film è il padre di Elias, Anton (Mikael Persbrandt) il quale si trova in Africa, in un campo di rifugiati dove opera in qualità di medico. Nel campo arriva una ragazza incinta la cui pancia è stata tagliata da tale Big Man, un capobanda del luogo che si diverte a scommettere sul sesso dei bambini.
Al centro della narrazione vi è un conflitto tra violenza e non violenza. Anton cede alla violenza, così come Christian, l’amico di suo figlio. Non rimane che una società che ha fallito sia in Africa che in Europa. Ma forse è l’umanità stessa ad essere un fallimento. In entrambi i continenti, ci dice Susanne Bier, prevalgono violenza ed ipocrisia. Il film è candidato all’Oscar 2011 ed in concorso al Festival di Roma 2010. “Siete tutti ipocriti”, ci ricorda ancora la voce dell’innocenza, accusando il mondo degli adulti. È vero, ed aprire e chiudere un film con i visetti candidi e sorridenti di bambini africani sfortunati ne è la prova più palese.
Fabio Sajeva