Quante centinaia di migliaia di euro incasserà In un posto bellissimo, e ci scusiamo per il poco raffinato gioco di parole? Riuscirà almeno a pareggiare il denaro investito, arrivato da tanti piccoli e meno piccoli finanziatori – come succede sempre per i film indipendenti e, da un po’ di tempo, anche per quelli firmati da produttori apparentemente più facoltosi? Non c’interessa così tanto perché conosciamo la risposta: il botteghino sarà un bottino magro, probabilmente, se pensiamo alla media di film come questi. Eppure il film diretto e sceneggiato da Giorgia Cecere non è un cattivo film, anzi: nella sceneggiatura trova il suo pregio principale, seppure un vestito un po’ più corto avrebbe dato più giustizia a quel corpo. Sceneggiatura come insieme di svolte narrative e morali che plasmano i personaggi ma anche come struttura di semine e raccolti, set-up e pay-off che, distanze talvolta eccessive a parte, riescono a raccontarci un cambiamento profondo.
Lucia, infatti, è una donna che non ama prendere l’iniziativa: un po’ per carattere, un po’ per colpa di un pezzo del suo passato che non riesce a scollarsi di dosso – o almeno a delimitare, per non subirne più l’influsso negativo e godere solo del suo dolce ricordo. Gestisce un negozio di fiori, senza troppo entusiasmo. Andrea, suo marito, svolge una di quelle professioni – non è necessario sapere quale – che spesso lo costringono lontano da casa, per qualche ora o per qualche giorno di troppo. Ma è davvero imputabile al lavoro, questa lontananza?
Quando questo dubbio comincia a crescere troppo, anche per la pazienza ignava di Lucia, ecco che il richiamo all’azione prende il sopravvento. Niente di sconvolgente perché siamo comunque in una storia davvero low-concept, per usare un termine in voga nell’industria del settore, ma una serie di piccoli gesti quotidiani che servono a Lucia per recuperare la fiducia in se stessa, l’autostima, la certezza di non aver bisogno di qualcuno che badi a lei ma soltanto scegliere se desiderare quel bisogno. Per esprimere questi sentimenti, questo bisogno di serenità, la regista si affida prevalentemente alla camera a mano e a luci fredde, che con la loro discrezione tolgono parzialmente dell’imbarazzo alcuni dialoghi con attori poveri di spontaneità. Si affida poi, ancora una volta, a Isabella Ragonese, che aveva già diretto nel Primo incarico e che, a dirla tutta, interpretava un personaggio non troppo dissimile, per la sua inerzia iniziale e per il modo in cui si declinava quella storia di rapporti squilibrati tra i due sessi. Che sia in agguato la sindrome da clonazione à la Servillo?
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