Marco e Flavio Restelli davanti a un tempio hindu a Khajuraho.
Cari lettori, è con una certa emozione che pubblico qui un particolare reportage “a quattro mani” uscito tempo fa sul mensile Elle. Si tratta di un viaggio in India che ho fatto con mio figlio Flavio Edoardo, e potrete leggere due punti di vista diversi: quello di un padre e quello di un ragazzo di 18 anni. All’inizio troverete la “motivazione” del viaggio e il mio reportage. A seguire c’è il suo reportage, che si intitola Please, stop horn. Attendo i vostri commenti, buona lettura, MR.
In India con mio figlio. Di Marco Restelli
«Papà, fra poco compirò 18 anni: non voglio una moto, non voglio oggetti, voglio che tu mi regali un viaggio in India insieme a te. Voglio vedere con te l’India che mi hai sempre raccontato». Così mi ha detto tempo fa mio figlio Flavio Edoardo. Non me lo sono fatto ripetere due volte: i diciottenni hanno in testa di tutto e i genitori non sono certo in cima alla lista, perciò se tuo figlio ti fa una proposta del genere è lui che ti sta facendo un dono sorprendente.
Ma perché mi stupisco? Non dovrei. Da quando mio figlio è entrato nell’adolescenza il nostro rapporto si è nutrito di mille interessi comuni: musica, cinema, libri, calcio, politica, storia, amicizia e amore…non c’è praticamente nulla di cui io e Flavio non parliamo. E il filo di questo dialogo non si è spezzato mai, nemmeno di fronte al dolore della separazione avvenuta fra me e sua madre tre anni fa. Sicuramente io e lei abbiamo fatto degli errori come coppia (una separazione dice questo) ma sono altrettanto sicuro che abbiamo fatto un buon lavoro come genitori, perché il risultato è davanti a noi: due figli brillanti e appassionati, che amano ciò che fanno e lo fanno bene. Dovevo aspettarmi, prima o poi, che Flavio volesse trasformare in esperienza viva la materia di cui ha sempre sentito parlare in casa: l’Oriente. Io e sua madre ci fidanzammo da ragazzi quando studiavamo lingue e culture orientali all’università; in casa nostra si è sempre “mangiato pane & Asia”; e qualche anno fa mia moglie portò con sè in Giappone la nostra figlia maggiore, Sibilla. Ora è il turno di Flavio. Che per il suo primo viaggio in Oriente ha scelto l’India, quell’India che suo padre esplora da trent’anni in vari modi: come giornalista-scrittore, come guida di viaggiatori, e come docente di cultura indiana all’università statale di Milano.
Cercherò di non deluderti, figlio mio. Così, mi metto subito al lavoro: scelgo un itinerario nel Nord fra luoghi che amo e di cui conosco il grande fascino. Luoghi famosi accanto ad altri quasi sconosciuti: Amritsar-Delhi-Agra-Orchcha-Khajuraho-Varanasi. Un viaggio nell’arte e nell’uomo, fra culture e religioni diverse: Sikhismo, Islam, Induismo. E scelgo alberghi “buoni”, cioè diversi da quelli in cui andai io nel mio primo viaggio in India, quando avevo 21 anni e zero soldi in tasca…
Poi vado a parlare con gli insegnanti di mio figlio al liceo: quella decina di giorni di scuola che Flavio perderà non li devono intendere come un “vuoto” bensì come un “pieno”, perché il ragazzo, viaggiando in un Paese lontano, imparerà a confrontarsi con ciò che è davvero diverso da lui, ed è la scoperta della diversità che ci fa crescere. Scoprirà nuove assonanze fra sè e il mondo, e tornerà arricchito. Lo conosco: è onnivoro. Questo dico ai suoi insegnanti, che mi capiscono. E gli daranno il tempo di recuperare sui compiti quando tornerà fra i banchi.
Il giorno della partenza si avvicina e io mi rifaccio una raccomandazione: non dire troppo, non fare troppo, non sovrapporre la “tua” India alla sua. Lascia che tuo figlio scopra il più possibile da solo, che plasmi da solo la sua nuova grammatica delle emozioni. Ma prima ancora di partire, Flavio inizia con il piede giusto: «Non voglio vedere le foto dei posti su internet, papà, voglio la sorpresa». Bravo figliolo: cosa sarebbe la vita senza incanti? E finalmente arriva il grande giorno: il 30 ottobre partiamo. In aereoporto una domanda mi vortica in testa: io e l’India saremo all’altezza delle sue attese?
—————————————————————–
Flavio Edoardo Restelli pela l’aglio con i sikh nelle cucine del Tempio d’Oro di Amritsar. Foto di MR
Non ci si abitua mai alla Bellezza. Ovunque sia. Venezia, per esempio, mi strega ogni volta. La stessa cosa mi accade, dopo tanti anni, al Tempio d’Oro di Amritsar, il “Vaticano” dei sikh. Un gioiello fatto di oro e marmo bianco, in mezzo a un lago che al tramonto diventa rosso dorato, circondato da candidi palazzi e dai mille colori dei turbanti degli uomini e dai sari delle donne. Qui sono le persone ad ammaliare Flavio: la loro ospitalità e la loro cortesia, tipiche dei sikh. Giusto partire dalla gente: quindi lo porto nelle cucine del Tempio d’Oro. Enormi, spettacolari, le cucine sono un’istituzione fondamentale: sfamano cinquantamila persone al giorno, compresi i visitatori come noi. Gratuitamente. Perché, dicono i Sikh, «Dio accoglie tutti». Nutrire così tanta gente è un’impresa titanica, resa possibile da un “esercito” di volontari che dopo il lavoro o la scuola vengono qui a pelare patate, cucinare minestre, lavare i piatti degli altri. Uomini e donne, vecchi e ragazzini. Flavio è affascinato: a un certo punto si siede in mezzo a un gruppo di uomini con il turbante che pelano una montagna di spicchi d’aglio e si mette a lavorare con loro, che lo accolgono volentieri. Sorrido fra me: cosa direbbe sua sorella Sibilla – che lo rimprovera di non aiutare in cucina – se lo vedesse ora? Benvenuto alla tua prima lezione indiana, figlio mio.
Uno scorcio dei palazzi di Orchha. Foto di Marco Restelli
Durante il viaggio, Flavio è vorace di sensazioni. A Delhi, di notte, si aggira quasi famelico nell’imponente sito archeologico del Qutub Minar (Patrimonio Unesco): le grandiose rovine, illuminate dai fari, creano giochi di ombre che raccontano il fasto delle corti dei Sultani. Flavio ascolta i sussurri delle antiche pietre, mi chiede e impara tutto: nomi, date, storie. Lo stesso fa più tardi, ad Orchcha, uno di quei luoghi dispersi nella campagna dove l’India è ancora India: di fianco a un fiume sonnacchioso i palazzi abbandonati, con i loro affreschi e le loro torrette svettanti, gli narrano le storie dei maharaja che li abitarono. Lui assorbe tutto come una spugna, lasciando che le emozioni lo pervadano. Sono orgoglioso di lui. Io osservo il suo osservare, ascolto il suo ascoltare: l’India è diventata sua, e mentre viaggia la condivide su Facebook con gli amici.
«Papà! L’elefante, l’elefante!». Stiamo andando in macchina su una stradina di campagna e abbiamo appena superato l’elefante di un contadino, guidato dal suo mahut. L’avevo visto ma non ci avevo fatto caso: forse ho visto troppi elefanti, forse sono ormai un vecchio disincantato. Ma Flavio grida: «Papà, ma non capisci? E’ il primo elefante libero che vedo in vita mia!». Blocchiamo la macchina e Flavio si precipita a farne la bestia più fotografata dell’India. All’improvviso mi torna un ricordo: Flavio aveva tre anni, io e sua madre lo avevamo portato a Disneyland Paris, lui aveva gradito tutti i giochi ma senza grande trasporto. Poi, arrivò il momento dell’entusiasmo: un laghetto con le paperelle! Vera felicità di Flavio che gettava le molliche di pane agli animaletti. Io e sua madre ci guardammo: i laghetti con le paperelle ce li abbiamo anche a Milano, forse non era necessario portarlo a Disneyland. Le cose più belle sono sempre le più semplici? Di fronte a un semplice elefante il mio diciottenne per un attimo è tornato bambino. (Segretamente, me ne rallegro).
Il sesso non ha molti segreti, oggi, per i diciottenni. Di fronte alle sculture erotiche che ricoprono i templi indù di Khajuraho – quasi illustrazioni delle complicate posizioni del Kamasutra – Flavio si aggira come uno studioso esperto della materia. Io lo seguo silenzioso, ricordandomi che alla sua età mi sentivo molto meno esperto. Alla fine lui si volta e sospira: «eh, come mi manca la mia ragazza!». Ma in verità ha sospirato per lei anche altrove, di fronte al più romantico monumento all’amore mai realizzato: il famoso Taj Mahal, che l’imperatore Shah Jahan fece costruire per accogliere le spoglie mortali della sua preferita, l’amatissima Mumtaz. L’India è un ottimo posto per sospirare d’amore e d’altro. Così quando arriviamo a Varanasi, su una terrazza affacciata sul Gange, giunge il momento dei sospiri e delle confessioni: sulla sua ragazza, il rapporto con gli amici, il suo futuro, il mondo intero. Io ascolto, che è una delle cose migliori che un padre possa fare. Ogni tanto parlo. E penso che dal laghetto con le paperelle di ieri all’India di oggi è stato un soffio, i nostri figli vanno veloci come il vento.
Flavio e Marco Restelli all’alba sul Gange a Varanasi.
Anche a Varanasi – la città più santa dell’Induismo ma anche la più lercia e la più “difficile” dell’India – Flavio non si ferma di fronte a niente, saltellando veloce fra le merde di vacca sacra, i tempietti nascosti nei vicoli e le grandi cerimonie notturne dei brahmani. All’alba del giorno dopo siamo insieme in barca sul Gange, a guardare le abluzioni dei fedeli nel sacro fiume illuminato dal primo sole. E lì lo sento dire: «quando mi porti a vedere l’India del sud, papà?». Sono questi i momenti in cui un padre si metterebbe a ballare. Anche in barca, col rischio di finire nel Gange.
____________________
Please, Stop Horn. Ovvero: in India con mio padre. Di Flavio Edoardo Restelli
Flavio Restelli con due sadhu a Varanasi. Foto di MR
“Please, stop horn”. È un po’ come dire: “mollami”. La legge universale dell’adolescente è dogma imperante per le strade indiane. Ogni veicolo che si rispetti reca questa scritta sul retro. Per la serie: “hey, fai la pace con quel clacson”. E già che ci sei, anche con te stesso.
Sarà perché questo spirito “presobene” mi ha conquistato subito, o sarà perché mi piace il cibo piccante: in ogni caso, dieci giorni in giro per la valle del Gange mi hanno davvero fatto innamorare dell’India.
La mia relazione con questo paese, in realtà, comincia molto prima del 30 ottobre 2013. Quando cresci come me, figlio di due genitori orientalisti, è tutto un po’ diverso rispetto agli altri bambini, e col tempo te ne rendi conto. Ad esempio, durante il tuo primo viaggio in Asia ritrovi in un bazar l’arredamento del tuo salotto. Il primo libro che i miei mi lessero fu “Le tigri della Malesia” e il primo che ultimai da solo “Siddharta, il principe illuminato”. Il gene insano mi è stato trasmesso nel latte. In effetti, il tempismo di questa esperienza è stato perfetto: dopo una vita di racconti, con i diciotto anni alle porte, finalmente ho potuto toccare con mano ciò che ho sempre sognato. Non immagino regalo migliore.
Al mio ritorno, una domanda mi hanno posto tutti: cosa mi è piaciuto di più di ciò che ho visto e vissuto. Risposta impossibile. Meglio i templi di Khajuraho o il Taj Mahal? Stare con i Sikh al Tempio d’Oro o assistere al rito di purificazione col fuoco a Varanasi? Meglio tornare in India, mi verrebbe da rispondere, magari in un posto ancora diverso.
Di sicuro si è rivelata un’occasione per avvicinarmi a mio padre. Può sembrare ovvio: per conoscere un indologo bisogna andarci in India. Ovvio ma poco pratico: vi auguro di essere figli di un esperto di uno Stato un po’ più vicino. E benché io mi sia stupito nel vedere a che punto arrivasse la sua cultura, credo che anche lui sia riuscito a capire meglio certe cose. Che non sono più un bambino, ad esempio, e che non dimentico il passaporto in hotel e non ho bisogno che mi traduca le scritte in inglese. Oppure, che tutto il mondo è paese per i ragazzi della mia generazione, e che la contrattazione selvaggia sui prezzi è pane per i nostri denti.
La parte migliore dell’avere la guida incorporata nel gruppo è la totale libertà, e la possibilità di venire a contatto con la gente del posto. Le foto che conservo con più gelosia sono quelle scattate con persone incontrate a caso. E il sorriso più bello che ho visto è stato quello di una timida ragazza che mi ha avvicinato a Delhi, per poi fuggire subito non appena ho tirato fuori la macchina fotografica.
Ma vedere la vera India non è solo sorrisi. Lo stesso giorno a Delhi, la mia attenzione è stata catturata da un mendicante al lato della strada. Uno come tanti, riverso nel fango, pieno di mosche e con una gamba a metà. Quanti film ho visto con scene del genere? Sarei passato avanti anche questa volta se il suo sguardo triste non avesse commosso anche “la grande guida”, convincendolo fargli l’elemosina. Sarei riuscito a trattenere le lacrime se quelle poche rupie le avesse accettate. Ma la vista di mio padre che gli porge un gelato, desiderio da lui espresso a gesti, è stata troppo per resistere a un film in 4 D. Sul treno per Agra non sono riuscito a dormire: questo viaggio mi stava facendo riflettere su tutto. Sui miei amici, la mia città, il mio paese, la mia vita presente e futura, le mie passioni. Una cosa è sicura, ora: voglio studiare antropologia. L’ho deciso in barca sul Gange a Varanasi, mentre assistevo alle abluzioni che compiono gli indù tutte le mattine all’alba.
Una cosa invece non mi ha chiesto nessuno: di definire in breve l’India per ciò che è apparsa a me. Risponderei così: un paese da cui puoi aspettarti qualunque cosa, terra di ossimori, antitesi e paradossi.
Snocciolerò qualche esempio.
Ad Amritsar ho notato un possente edificio in rovina nel cui cortile ho scoperto un portico finemente decorato, ancora perfetto. Ad un angolo l’India mi è sembrata la dimora di una grande civiltà antica ormai decaduta, e all’altro un paese povero in via di sviluppo.
Gli indiani maschi si ostinano a vestirsi all’occidentale e dimostrano un gusto che farebbe sembrare raffinato un texano. Ma quando invece le donne indossano i loro abiti tradizionali, sono bellissime. Nel giro di pochi metri, si passa da un sito archeologico di valore artistico inestimabile, alla sporcizia e alla puzza di un mercato popolare. Si vedono indiani che passano le loro giornate sdraiati per strada a prendere il sole. La pigrizia e la flemma sono evidentemente alla stregua di un credo religioso. Eppure si tratta di un popolo di matematici geniali e grandi lavoratori.
Dov’è il trucco?
Marco e Flavio Restelli a Delhi nel sito Unesco del Mausoleo di Humayum.
Voglio chiudere con il capitolo aneddoti.
Queste sono le cose che meno mi sarei aspettato di vedere, e che (per fortuna) ho visto:
- Nove persone che escono da una citycar lunga un metro e larga mezzo, a Delhi.
- Un Sikh che guida contromano nel viale principale della capitale.
- Questa merita un racconto dettagliato, per il suo valore emblematico in merito all’attenzione che mettono gli indiani nel tenere pulito il territorio pubblico. Mi trovo all’ingresso dell’hotel in cui alloggio ad Agra e ho le tasche piene di fazzoletti che non so dove gettare (non esistono cestini). Ne prendo in mano uno e chiedo al fattorino. Lui mi fa segno di darglielo e mi guarda con aria solenne come per dire: “lascia fare a me”. Gonfia il petto, prende la rincorsa e lancia per terra il fazzoletto, che cade a un metro da noi. Si gira verso di me e sorride con aria soddisfatta.
Dopo un viaggio straordinario, torno a casa con soli due piccoli rimpianti. Uno è non aver inviato una cartolina di Khajuraho alla mia ragazza per paura che sua madre, vedendo le statue raffiguranti le posizioni del kamasutra, non mi facesse più entrare in casa.
L’altro è non avere un jet privato.