Incentivi all’energia, carbone e petrolio battono le rinnovabili

Creato il 19 marzo 2013 da Informasalus @informasalus
CATEGORIE: Attualità

Incentivi all’energia, carbone e petrolio battono le rinnovabili

Nel 2010 gli incentivi alle fonti rinnovabili sono stati pari in tutto il mondo a 66 miliardi di dollari. Nello stesso periodo i combustibili fossili hanno intascato tra 775 e mille miliardi. Un paradosso, figlio dello scarso impegno politico e dell’enorme potere delle lobby.
Difficile non essere d’accordo quando si ribadisce l’importanza di puntare sulle energie pulite, liberandosi dalla schiavitù di carbone e petrolio e dal loro pesantissimo impatto ambientale. Difficile trovare uno Stato o un ente pubblico che non abbia promesso di intraprendere questa strada. Ma i cambiamenti sono fatti anche di cifre e quelle che si leggono in un recente rapporto realizzato da Vital Signs per il Worldwatch Institute raccontano una realtà ben diversa.
Nel 2010 per l’energia pulita in tutto il mondo sono stati stanziati finanziamenti pubblici per 66 miliardi di dollari: due terzi alle rinnovabili, un terzo ai biocarburanti. Lo stesso anno i contributi ai combustibili fossili hanno raggiunto soglie ben diverse: si sono attestati tra i 775 e i mille miliardi di dollari, a seconda del metodo di calcolo usato. Come dire che, per ogni dollaro per il fotovoltaico, nel frattempo il petrolio ne intascava tra gli 11 e i 15.
I sussidi alla produzione di energia si possono quantificare in circa 100 miliardi di dollari, anche se il conteggio non è facile. Restringendo il campo a 24 Paesi Ocse emerge che il carbone ha ottenuto il 39% del totale, mentre il 30% circa è andato rispettivamente a petrolio e gas naturale. I sussidi al consumo, invece, nel 2010 hanno raggiunto i 409 miliardi nei Paesi emergenti, mentre negli Stati industrializzati si sono attestati su una media di 45 miliardi all’anno (vedi grafico). Fanno la parte del leone gli esportatori netti di petrolio e gas, che a partire dal 2007 coprono circa l’80% della spesa. Se si prendono in considerazione i contributi per kWh prodotto, invece, in ragione del peso nettamente maggiore della produzione da fonti “tradizionali”, per le rinnovabili i dati sono compresi tra gli 1,7 e i 15 centesimi di dollaro per kWh, mentre per le fonti fossili sono fermi a 0,1-0,7 ¢/kWh.
«Sono dati fisiologici – afferma Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – perché il sistema da sempre punta sulle fonti fossili, come si è visto anche nella campagna elettorale negli Usa, in cui la lobby del petrolio ha sostenuto Romney. Chi guadagna miliardi all’anno, e con quei miliardi finanzia la politica, difficilmente rinuncia ai privilegi».
Il potere delle lobby
Le conquiste delle lobby si toccano con mano. Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e clima di Greenpeace, fa un esempio: «In Europa è in corso un intenso dibattito sui livelli di efficienza dei motori e sui target per ridurre emissioni e consumi. Ma le case automobilistiche esercitano forti pressioni affinché tali target vengano definiti nel modo più blando possibile. Quindi le compagnie petrolifere trovano un alleato in un settore potentissimo».
Si tratta di scelte politiche, dunque. Alimentate anche dal fatto che determinate fonti energetiche rappresentano assetto strategici per alcune economie: il carbone per India e Cina, il petrolio e il gas per gli Usa. Poco conta, sottolinea Boraschi, il fatto che «siano in controtendenza rispetto al mercato: da almeno tre anni su scala globale le rinnovabili attraggono più capitali rispetto alle fonti fossili».
Senza sussidi ai combustibili fossili
C’è chi pensa che, se gli incentivi ai combustibili fossili venissero azzerati, a rimetterci sarebbero i cittadini, a causa dei rincari in bolletta o sul prezzo della benzina. Ma Zanchini non è d’accordo: «I contributi non abbassano il prezzo finale: finiscono solo nelle tasche dei colossi del settore. Se gli stessi fondi fossero destinati alle rinnovabili, esse diventerebbero competitive rispetto al prezzo che già paghiamo nelle nostre case per il riscaldamento o l’elettricità».
Quindi cosa vorrebbe dire, in concreto, eliminare i sussidi a carbone, gas e petrolio? Secondo l’International Energy Agency (Iea), entro il 2020 la domanda di petrolio calerebbe di 3,7 milioni di barili al giorno, quella di gas naturale di 330 miliardi di metri cubi, quella di carbone di 230 milioni di tonnellate. Meno 3,9% per il consumo di energia a livello globale. Con effetti tangibili anche sulle emissioni di CO2, ridotte del 4,7%. Per non parlare dei benefici per la salute.
Secondo la US National Academy of Sciences ogni anno gli Usa spendono 120 miliardi di dollari per l’inquinamento e i costi sanitari che ne derivano. «A guadagnarci sono solo le grandi compagnie», conclude Zanchini. La sola Italia, infatti, spende ogni anno 63 miliardi di euro per comprare fonti fossili dall’estero. E stanzia in media 400 milioni di euro all’anno per gli autotrasporti, scoraggiando il trasporto su rotaia. Ancora, dà il via libera alle trivelle in mare (vedi Valori di novembre) e concede permessi gratuiti di emissioni di Co2 alla produzione termoelettrica.
Invertire la rotta
Eppure esempi positivi ci sono: la Germania, ad esempio. E anche l’Ue, spiega Boraschi, «indica obiettivi vincolanti su tre macro-aree: sostenere le rinnovabili, adeguare la rete elettrica per assimilarne lo sviluppo, investire sull’efficienza energetica. Soprattutto sul terzo bisogna ancora lavorare». Gli ostacoli ci sono, ma la prospettiva è obbligata. Tuttavia, precisa Boraschi, non si può andare avanti da soli: «Se le economie emergenti non prenderanno questa strada, ogni buona azione intrapresa dall’Europa conterà davvero poco nella lotta al climate change».



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