Matheson è apparso svariate volte sulle pagine di questo blog, e lo farà ancora statene certi, soprattutto perché si tratta di uno degli autori che più preferisco e quello, senza alcun dubbio, che possiede lo stile più diretto ed essenziale fra tutti quelli che leggo. Certo può non piacere (davvero?) ma è indiscutibile la sua capacità di creare storie da brivido, contesti che da un semplice palo di partenza diventano veri e propri pilastri su cui poggia una trama che spesso risulta potente e violenta.
"Suonava una marcia funebre con il volto illuminato dalla luce della luna. Ma non c'era nessun piano, solo la branda bassa e stretta su cui era sdraiato. Niente lenzuola, solo una ruvida coperta marrone avvolta strettamente attorno al materasso. Vestito di tutto punto, aveva la testa appoggiata su un piccolo. Il chiarore diffuso che si riverberava sul suo corpo esaltava il candore delle mani magre, intente a suonare Chopin sulle gambe. Il reparto era immerso nel silenzio, ma lui sentiva la musica nella sua testa. Era un uomo giovane, sui venticinque anni, con i capelli arruffati e gli occhi scuri. Il suo viso era l'opera di uno scultore che aveva dimenticato di fermarsi al momento giusto e, nel tentativo di raggiungere la perfezione, aveva esagerato: lineamenti sottili come carta, orecchie e naso che sembravano sul punto di rompersi, labbra e mento come fragile vetro che poteva frantumarsi al minimo urto. E tutto bianco, alabastro, bianco avorio."