A quest’ora si illuminano le finestre nella soffitta dove abita la famiglia di Abramo. Due grandi stanze dal pavimento di mattoni sono la casa di Abramo; una ha nel mezzo la tavola, ai ganci del soffitto – coperto di giornali e di manifesti, con molte macchie e disegni di umidità – sono appese le pentole di alluminio e la lampadina. L’abbaino è la finestra più grande della casa. Ora vede le stelle, ma a volte la pioggia e in certe notti le eclissi di luna. Nella stanza vi sono i tre letti di ferro spinti fin dove il tetto degrada, un armadio di lamiera, una poltrona di vimini, degli ombrellini da sole; e infine il grammofono a cilindri, l’indimenticabile macchina che non manda più suono ma che per un tempo infinito muove e fa girare rotelle lucenti nel buio.
Ora la guerra è finita, Abramo, Giorgio hanno quasi diciott’anni e l’altro ragazzo, quello che era sempre con loro, quindici.
Insieme, nelle sere di maggio appena finita la guerra hanno fatto scoppiare petardi e bombe a mano nelle piazze della città, hanno cominciato a fumare sigarette americane e ad avere rivoltelle vere, che ancora ungono e mantengono pulite nell’armadio, sotto calzetti di lana.
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Incipit de Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete, Adelphi 2006 (prima edizione Neri Pozza, 1950).