Cominciò come al solito, nel bagno del Lassimo Hotel. Sasha si stava ritoccando l’ombretto giallo davanti allo specchio, quando sul pavimento accanto al lavandino notò una borsa, probabilmente della signora che sentiva fare pipì piano piano da dietro la porta modello caveau di uno dei gabinetti. Dal bordo della borsa, appena visibile, spuntava un portafoglio di pelle verde chiaro. Per Sasha fu facile rendersi conto, ripensandoci poi, che a provocarla era stata la fiducia cieca della donna: Viviamo in una città dove la gente ti ruba anche i capelli dalla testa, se solo gliene dai occasione, e tu molli la tua roba in bella vista aspettandoti pure di ritrovarla quando torni? Le aveva fatto venire voglia di darle una lezione. Ma quel desiderio camuffava solo in parte la sensazione più profonda che Sasha aveva sempre: il portafoglio, gonfio e morbido, che si offriva alla sua mano. Sembrava così banale, così terra terra lasciarlo lì senza cogliere l’attimo, accettare la sfida, fare il salto, tagliare la corda, fregarsene della prudenza, vivere pericolosamente («Sì, ho capito», disse Coz, il suo psicologo) e prenderlo, quel cazzo di portafoglio.
«Cioè rubarlo».
Stava cercando di spingere Sasha a usare quella parola, più difficile da evitare nel caso di un portafoglio che in quello di molte altre cose da lei rubate nel corso dell’ultimo anno, da quando la sua patologia (così la chiamava Coz) aveva subìto un’accelerazione: cinque mazzi di chiavi, quattordici paia d’occhiali da sole, una sciarpa da bambino a righe, un binocolo, una grattugia per il formaggio, un coltellino, ventotto saponette, ottantacinque penne, da quelle a sfera da due soldi con cui firmava le ricevute della carta di credito alla Visconti color melanzana che aveva rubato all’avvocato del suo ex datore di lavoro durante una riunione contrattuale. Nei negozi Sasha non rubava più, le loro merci fredde e inerti non la tentavano. Solo alle persone.
«Ok», disse. «Rubarlo».
Sasha e Coz avevano ribattezzato quella sensazione che le veniva «la sfida personale», ovvero: prendere il portafoglio, per Sasha, era un modo di affermare la sua forza, la sua individualità. Quello che dovevano fare era spostare un po’ di cose nella sua testa in modo tale che la sfida diventasse non quella di prendere il portafoglio, ma di lasciarlo dov’era. Ecco quale sarebbe stata la cura, anche se Coz non usava mai parole come cura. Portava maglioni bizzarri e si lasciava dare del tu, ma aveva un’imperscrutabilità da psicologo vecchio stampo, tanto che Sasha non riusciva a capire se fosse gay o etero, se avesse scritto qualche libro famoso, o se invece (come talvolta sospettava) fosse uno di quei ciarlatani a piede libero che si fingono chirurghi e poi ti dimenticano il bisturi nel cranio. Certo, erano tutte domande che si potevano risolvere su Google in meno di un minuto, però erano domande utili (secondo Coz), e finora Sasha aveva resistito.
Il divanetto su cui si stendeva nel suo studio era di pelle blu e morbidissimo. A Coz quel divano piaceva, le aveva detto, perché sollevava entrambi dal peso di doversi guardare negli occhi. «Non ti piace guardare la gente negli occhi?», gli aveva chiesto Sasha. Sembrava una confessione curiosa, da parte di uno psicologo.
«Lo trovo stancante», aveva risposto lui. «Così tutti e due possiamo guardare dove ci pare».
«Tu dove guarderai?»
Lui aveva sorriso. «La scelta che ho la vedi».
«Ma di solito dove guardi? Quando hai qualcuno sul divanetto».
«Qua e là per la stanza», aveva detto Coz. «Sul soffitto. Nel vuoto».
«Ti addormenti mai?»
«No».
Sasha di solito guardava la finestra, che dava sulla strada, e che quella sera, mentre proseguiva il suo racconto, era rigata di pioggia. Aveva intravisto il portafoglio, soffice come una pesca troppo matura. L’aveva sfilato dalla borsa della donna e se l’era fatto scivolare nella borsetta, richiudendo la cerniera prima che il rumore della pipì s’interrompesse. Aveva spinto la porta del bagno, e attraversando l’atrio con passo leggero era tornata al bar. Lei e la proprietaria del portafoglio non si erano viste.
Titolo:Il tempo è un bastardo
Titolo originale: A visit from the Goon Squad
Traduttore: Matteo Colombo
Genere: Letteratura straniera
Data prima pubblicazione: 2010 (in Italia nel 2011)
Casa Editrice: Minimum Fax
391 pagine
Prezzo copertina: 18,00 €
EAN 9788875213633
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Il tempo è un bastardo
Sinossi:
“Il tempo è un bastardo” è un romanzo insolito, formato da una serie di racconti eterogenei per ambientazione e stile, ma collegati dal ricorrere degli stessi personaggi. Al centro ci sono Bennie Salazar, ex musicista punk e ora discografico di successo, e il suo fidatissimo braccio destro Sasha, una donna di polso ma dal passato turbolento. Le loro storie si snodano fra la San Francisco underground di fine anni Settanta e una New York prossima ventura in cui gli sms e i social network strutturano le emozioni collettive, passando per improbabili ascese sociali e matrimoni falliti, fughe adolescenziali nei bassifondi di Napoli, scommesse azzardate ma vincenti su musicisti dati troppe volte per finiti. Intorno a Bennie e Sasha si compongono le vicende delle loro famiglie, dei loro amici, dei loro mentori: una costellazione di coprotagonisti indimenticabili grazie alla quale la Egan riesce a raccontare le degenerazioni isteriche del giornalismo e dello star-system, la pericolosa meraviglia delle droghe psichedeliche, le delicate dinamiche emotive di un bambino autistico nella provincia americana del futuro. “Il tempo è un bastardo” supera con coraggio gli stereotipi della narrativa tradizionale ma resta godibile e appassionante per tutti i lettori: è un romanzo-mondo aperto alle infinite possibilità dell’esistenza e della prosa, che si è conquistato la vetta della scena letteraria americana e si avvia a diventare un caso internazionale.