Incontri: con valerio chiaraluce alla scoperta della fabbrica della piana

Creato il 18 luglio 2014 da Benedetta Tintillini @BiTintillini

di Benedetta Tintillini

Fra un uliveto ed una pineta, all’interno del Parco della Piana, piacevolissima area verde a ridosso del centro abitato di Todi, si trova l’incantevole Fontana dei Bottini. Deliziosa nella sua semplicità e nelle sue funzioni, pur con meno di 150 anni di vita, la fontana ci narra di una vita semplice e contadina che sembra lontanissima nel tempo. Costruita nel 1872, si chiama dei “Bottini” perché alimentata da piccole gallerie dalle volte a botte, Bottini, appunto. Consta di tre vasche, le cui funzioni sono deducibili dalla diversa inclinazione dei suoi bordi esterni: una vasca era destinata all’abbeveraggio degli animali, con il bordo inclinato verso l’esterno, e due per lavare i panni, una per l’insaponatura ed una per il risciacquo, queste con i bordi inclinati verso l’interno.

Tale fontana era, ed è, alimentata dall’acqua drenata dalle gallerie che Valerio mi accompagna a visitare.

Mi preme sottolineare, argomento che mi sta molto a cuore, che la riscoperta della fontana, totalmente ricoperta dalla terra franatale sopra e dagli sterpi, e l’attuale accesso alle gallerie che la alimentano, nonché la sistemazione del al parco circostante, sono dovute all’enorme passione e dedizione, nonché al duro lavoro, dell’Associazione Toward Sky e nello specifico alle fatiche di Valerio Chiaraluce e di Massimo Rocchi Bilancini.

Indosso il caschetto di ordinanza ed entro, al seguito di Valerio, nelle gallerie ottocentesche, perfettamente accessibili anche ai meno avvezzi a questo genere di esperienze (io ne sono la prova), percorribili in piedi ed in estrema sicurezza.

Entro, ed il primo pensiero va agli uomini che le hanno realizzate, con i picconi, sotto lo stillicidio dell’acqua, sempre puntellando con travi di legno quanto scavato per il rischio di crolli, ed in seguito eseguendo le strutture in muratura, con mattoni, mi dice Valerio, realizzati con lo stesso materiale di risulta dello scavo, portato all’esterno, lavorato in una fornace all’uopo realizzata, e reintrodotto all’interno sotto forma di mattoni. Il cantiere, ovvero la Fabbrica, come si chiamava una volta, è durato un secolo circa, e la fornace ha realizzato manufatti destinati anche alla vendita. Il marchio distintivo infatti, formato dalle lettere CDP, a distinguere la fornace della Commissione Speciale Deputata ai Lavori della Piana di Todi, che vedo impresso in alcuni mattoni, viene ritrovato anche in altri edifici della città.

Ma qual’era lo scopo di tali gallerie? Todi è stata sempre a rischio frane e smottamenti, a causa della conformazione geologica del colle dove sorge e della presenza di acqua nel sottosuolo. Fin dall’antichità quindi, le gallerie più antiche risalgono al II sec. a.C., si è cercato di drenare le acque e di renderle utilizzabili in superficie. Da quel momento in avanti non si è mai smesso di realizzare cisterne, gallerie, cunicoli, sempre nell’intento di mettere in sicurezza la città. Le più facilmente accessibili sono quelle dove mi trovo, di epoca ottocentesca, per la realizzazione delle quali tutta l’Umbria fu interessata da prelievi fiscali, tale era l’emergenza.

Percorriamo le gallerie, l’acqua che scorre testimonia la loro, ancora attuale, funzione. Si notano gli angoli smussati all’incrocio delle gallerie, per permettere il passaggio delle carriole con le quali si portava all’esterno il materiale, e ogni tanto, guardando in su, ci si rende conto di essere arrivati in fondo ad un pozzo, tali pozzi costituivano, insieme alle gallerie ed ai cunicoli trasversali, il sistema “a griglia” che conduceva l’acqua dai livelli più alti della città, verso il basso e l’esterno.

Con il naso all’insù, guardando le pareti di uno di questi pozzi, è possibile vedere le aperture di un ordine di gallerie di livello superiore, attualmente accessibile solo con tecniche speleologiche.

Ci addentriamo ancora fino ad arrivare ad una suggestiva scalinata di un centinaio di gradini, per 40 metri circa di dislivello.

La scala è una dolce cascata d’acqua, e per questo coperta di calcare. Si nota, circa a metà della scalinata, il punto di raccordo tra il tratto scavato da sopra e quello scavato da sotto,non perfettamente allineati, ed un troncone di trave di legno ancora sporge, inglobato nella muratura, segno evidente dell’impossibilità di rimuoverlo.

Tale scalinata, mi spiega la mia solerte guida, oltre ad avere la funzione di raccordo e di accesso tra le gallerie, ha anche la funzione di rallentare il flusso delle acque, che, in caduta libera, avrebbero con il tempo potuto danneggiare e pregiudicare la galleria.

Mi racconta un aneddoto Valerio, a proposito delle travi utilizzate per i lavori. Ha rinvenuto alcuni documenti a proposito di una disputa tra “l’appaltatore dei lavori”, diciamo così, e la ditta esecutrice. La ditta esecutrice dei lavori viene accusata di utilizzare nel cantiere travi di “cerqua” invece di quelli di “quercia”, che si era impegnata a fornire.

Attualmente nel dialetto del Tuderte, e non solo, quercia e “cerqua” sono sinonimi, ma allora per quercia si intendeva il rovere e per cerqua il leccio. Una curiosità, sono sicura, sconosciuta a me e non solo.

Tante sono le gallerie e le storie ancora da scoprire, mi racconta Valerio mentre ripercorriamo il percorso a ritroso, come quelle concepite dall’immaginazione del tale Ciro Alvi, preposto al controllo dei lavori in assenza dell’architetto, e che, al contrario, appena l’architetto tornava a Roma, stravolgeva il progetto facendo scavare altrove, tanto da essere rimosso dall’incarico.

Torniamo al punto di partenza e la visita di questi luoghi, poco conosciuti anche ai tuderti, ma pieni di fascino e suggestione per le mille piccole e grandi storie che raccontano, ha termine, e “…infine uscimmo a riveder le stelle”…infatti ,nel frattempo, è calata la sera…



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