Incontro con Paolo Di Stefano: la Sicilia e la catastròfa di Marcinelle

Da Fabry2010

Paolo Di Stefano è nato ad Avola, in Sicilia… ma vive a Milano da diversi anni.
La sua è una delle firme più note delle pagine culturali del «Corriere della Sera». Ha lavorato per Einaudi e per «la Repubblica». Ha pubblicato libri di inchieste e numerosi romanzi di successo tra cui: Baci da non ripetere (1994), Tutti contenti (2003), Aiutami tu (2005, premio SuperMondello). Con il romanzo Nel cuore che ti cerca (Rizzoli, 2008) ha vinto il premio Selezione Campiello. Nel 2010, sempre per Rizzoli, è uscito Potresti anche dirmi grazie. Gli scrittori raccontati dagli editori.
Ho avuto il piacere di incontrarlo in occasione dell’uscita del suo nuovo libro, La catastròfa (Sellerio). Abbiamo discusso di Sicilia e Marcinelle.

Paolo, sei nato ad Avola ma vivi a Milano. Avere la possibilità di osservare la Sicilia “a distanza” può aiutare a comprenderla meglio?
Sono nato ad Avola e ho vissuto altrove dall’età di tre anni, ma ho sempre frequentato la Sicilia: mio padre, da buon professore di liceo, aveva due mesi di vacanze estive e tutta l’estate, per diciotto anni, io e i miei fratelli l’abbiamo trascorsa ad Avola, tra nonni, zii, cugini. Inoltre, una parte della Sicilia viveva intatta tra le quattro mura di casa mia, in Svizzera. I miei hanno sempre parlato in dialetto, mia madre ha sempre cucinato come le ha insegnato mia nonna: in casa era Sicilia, fuori la Svizzera. In più, i parenti di mia madre, siciliani pure loro, vivevano a Milano come fossero in Sicilia. Era un microcosmo iper-siciliano, dove tutto non solo si conservava ma veniva enfatizzato dalla distanza. Direi perciò che la Sicilia non l’ho mai abbandonata. Era lì, sempre presente e minacciosa, nel senso che mio padre, che non si è mai rassegnato a vivere all’estero, ogni due-tre giorni diceva: l’anno prossimo torniamo al paese… I miei nonni paterni gli hanno sempre rimproverato di essere partito e lui viveva con il profondo senso di colpa di averli abbandonati. Eravamo sempre pronti a tornare: un pendolarismo psicologico sfibrante. E quotidiano: in casa era tutta Sicilia, fuori era un altro mondo, nemico per mio padre, amico e inoffensivo per noi. Dentro (in famiglia) era un microcosmo arcaico, fuori la modernità. Poi, quando si ritornava d’estate, mio padre non sopportava niente e non vedeva l’ora di rientrare in Svizzera. Più che osservarla dall’esterno, la Sicilia l’ho vissuta e un po’ anche patita dall’interno, pur essendo geograficamente dislocato. Con l’età è cambiato tutto. Dopo anni di distanza: finalmente, con i primi risparmi giovanili, si poteva andare a far vacanza altrove (contro i miei, ovviamente, che non volevano che dimenticassimo la Sicilia).
Come vivi oggi il tuo rapporto con la Sicilia?
Dopo anni di distanza, il recupero è stato lento ma inesorabile. Un recupero affettivo ma non viscerale. Al punto che oggi posso dire di sentirmi davvero quello che sono: un siciliano che riconosce di aver vissuto abbastanza bene fuori. In questo recupero è stata fondamentale, per me, l’elaborazione della scrittura: i miei romanzi hanno sempre questo maledetto asse Nord-Sud, dove la Sicilia è comunque il luogo perduto della memoria che si scontra con una modernità mal digerita. Una disarmonia straziante tra vecchio e nuovo. Ho cominciato a pensare alla distanza quando mi sono messo in testa di capire perché mio padre, nel ’68, un anno dopo la morte per leucemia di mio fratello (aveva cinque anni, io dieci), ha deciso di caricare in macchina la bara e di farsi il viaggio da solo in autostrada per seppellire in paese il corpo di Claudio (nato e vissuto al Nord). Nel frattempo aveva fatto costruire una cappella. Il mio recupero della Sicilia nasce da lì, ma è un recupero, come dicevo, più dettato dalla mozione degli affetti che da un’osservazione razionale. Anche “Tutti contenti” è un ritorno quasi impossibile, ma rigenerante. Ci torno quando posso e ogni volta respiro emozioni, colori, voci, mare, rubo tutto quel che posso.

È appena uscito “La catastròfa”, pubblicato da Sellerio. Di che si tratta?
Si tratta di un romanzo-verità sulla tragedia mineraria di Marcinelle dell’agosto 1956, quando morirono 274 minatori, 136 dei quali italiani. È un libro atipico nella struttura, costituita dal mio viaggio a Marcinelle e in Abruzzo (dove ci sono molti reduci di quell’esperienza, comprese le vedove e i figli), le testimonianze in prima persona dei sopravvissuti e un piano processuale-documentario che ricostruisce a freddo gli eventi. È una pagina tragica del nostro paese, a cui nessuno in oltre cinquant’anni ha mai pensato di dedicare un libro complessivo. Una storia di cui vergognarsi per molte ragioni. Ed è bene che il libro (che ha anche un intento civile esplicito) esca nel 150.mo dell’unità d’Italia.

Progetti per il futuro?
Da molto tempo sto lavorando a un romanzo d’invenzione. Ma chissà quando…

Tanti auguri a Paolo Di Stefano.

Massimo Maugeri



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