Incontro con Quentin Tarantino per The Hateful Eight

Creato il 29 gennaio 2016 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

È con gli occhi ancora pieni delle immagini del suo ultimo e bellissimo The Hateful Eight che ci approcciamo all’incontro con Quentin Tarantino, in visita a Roma a pochi giorni dall’uscita del film nelle sale italiane, il prossimo 4 febbraio. Ad accompagnarlo il suo attore feticcio Michael Madsen e Kurt Russell, oltre che il Maestro (e Oscar quasi certo) Ennio Morricone, autore delle splendide musiche. L’attenzione però è quasi tutta concentrata su di lui. Del resto Tarantino è uno di quei registi per i quali il termine “genio”, per una volta, non appare fuori luogo e quando inizia a parlare è un autentico fiume in piena. Così una semplice occasione promozionale si trasforma ben presto in un affascinante excursus che copre più o meno tutte le fasi della sua carriera. A ulteriore dimostrazione di come ogni sua pellicola sia interconnessa all’altra. Ognuna un saggio su cosa voglia dire fare cinema oggi.

Mr. Tarantino, una costante di ogni suo film è la presenza di un personaggio che finge di essere qualcun altro. In The Hateful Eight ce ne sono addirittura diversi. Cosa la attrae nel processo di mistificazione dell’identità?

In effetti è vero: in tutti i miei film c’è qualcuno che finge di essere altro. Che poi  riesca o meno nel suo intento, te ne accorgi dal fatto che alla fine del film resti vivo o muoia. Pensa ad esempio a Bastardi senza gloria. Il personaggio di Shosanna Dreyfus è una brava attrice (Mélanie Laurent) e, alla fine muore. Lo stesso accade a Bridget Von Hammersmark (Diane Kruger). Solo Aldo Raine (il personaggio interpretato da Brad Pitt) non ci riesce e, per quanto provi a fingere di essere qualcun altro, non può fare a meno di essere se stesso. E lui è l’unico che sopravvive. Forse solo Pulp Fiction fa eccezione, ma anche in quel film il personaggio di Bruce Willis finge di essere qualcun altro. È un elemento drammaturgico che mi piace ma non saprei dirti perché vi faccio ricorso così spesso. Credo possa dipendere anche dal fatto di lavorare con ottimi attori che, in questo modo, posso mettere maggiormente alla prova.

The Hateful Eight è girato in un meraviglioso formato 70mm che ci fa rivivere i fasti di un cinema spettacolare e ormai quasi scomparso. Metaforicamente la battaglia tra pellicola e digitale è paragonabile a quella tra cowboy e indiani?

Sì, come metafora ci può stare. Magari spero che la pellicola faccia una fine migliore di quella degli indiani (ride). Per quanto anche loro hanno combattuto fino alla fine. Una delle cose più importanti riguardo il Panavision 70mm è che mi ha permesso di costruire queste grandi inquadrature in modo tale che il pubblico riuscisse sempre a vedere cosa fanno i personaggi anche durante due azioni che si svolgono contemporaneamente: quello che accade in primo piano e ciò che invece è sullo sfondo.

Rispetto ai suoi standard, questo film ha un incedere più lento verso l’esplosione della violenza. Era un effetto ricercato quello di far montare la tensione in maniera così parossistica?

Il lavoro sul testo è estremamente teatrale. Potremmo quasi definirlo una pièce, per cui non è uno di quei film in cui potevo ricorrere a trucchi cinematografici per accorciare i tempi. Hai queste otto persone chiuse in una stanza e hai bisogno di tempo per imparare a conoscerle una a una. E sai che prima o poi succederà qualcosa, solo non sai quando. Dilatando i tempi fai in modo che, quando questo qualcosa accade, sia ancora peggio di quanto ti aspettavi.

Il film è oggettivamente un meraviglioso omaggio al western classico, ma si intravede anche una parentela con La cosa di John Carpenter, con cui condivide – oltre al protagonista Kurt Russell e alla colonna sonora di Ennio Morricone – anche l’elemento femminile come variabile manipolatoria in un contesto esclusivamente maschile.

La somiglianza tra il mio film e La cosa va ricercata soprattutto in termini di scenario. In entrambi i film c’è un ambiente ostile dovuto alla neve ad esempio. Inoltre abbiamo dei personaggi intrappolati in una stanza messi in una condizione nella quale nessuno può fidarsi degli altri. Considera anche che ho sempre pensato a The Hateful Eight come a una versione western de Le iene che, a sua volta, era pesantemente influenzato da La cosa, quindi sì, i tre film sono per forza di cose in relazione simbiotica tra loro.

Come si pone riguardo alla polemica sulle mancate candidature di attori o registi di colore agli Oscar 2016 e, in particolare, alla mancata nomination per Samuel L. Jackson?

Mi dispiace molto che Sam Jackson non abbia avuto una nomination perché secondo me la meritava. Ma per quanto riguarda il boicottaggio, beh… se mi avessero candidato io ci sarei andato.

I suoi film partono sempre dalla volontà di sposare un genere per poi toccarne in realtà diversi. Lo stesso The Hateful Eight inizia come un puro western per poi trasformarsi in un kammerspiel che però è anche un giallo. C’è un metodo in tutto ciò?

Domanda insidiosa. Hai ragione, di solito tendo a lasciarmi trascinare da un genere. Poi però mi capita di pensare che non riuscirò mai a realizzare tutti i film che vorrei fare e, alla fine, mi ritrovo sempre a cercare di infilarne almeno cinque in uno. Da amante del cinema ho sempre apprezzato i film che avessero la capacità di travalicare i generi e, come autore, credo che sia una delle cose che mi riesce meglio. Per quanto riguarda invece il metodo, dipende tutto dalla storia. Una volta completata la sceneggiatura mi rendo conto che ci sono elementi sui quali non avevo riflettuto in partenza. Quando ho scritto The Hateful Eight sapevo che volevo fare un western. Ma, allo stesso tempo, volevo anche scrivere un tipico giallo con più persone in una stanza à la Agatha Christie, per cui cercavo di combinare questi due elementi assieme. Solo dopo la fine delle riprese mi sono reso conto di aver realizzato anche un horror, a causa degli effetti cumulativi di questi due elementi. Ovviamente non potrei esserne più felice.

Sono alcuni anni che il cinema americano, rappresentando eventi storici, cerca anche di rielaborare i valori generalmente associati a quegli stessi eventi. Sto pensando a Lincoln di Spielberg, Gangs of New York e, in qualche modo, anche a La 25a ora di Spike Lee. Dal momento che The Hateful Eight è, come lei stesso ha dichiarato, il suo film più politico, mi chiedevo se si ponesse sulla stessa scia dei film che ho citato.

Credo che Bastardi senza gloria e Django Unchained rientrassero maggiormente in quel tipo di rielaborazione della Storia. Questo film invece non nasce come politico, ma credo che lo sia diventato strada facendo. Quando ho messo la penna sul foglio l’unica cosa che mi interessava era una diligenza che procede in mezzo alla neve. Solo dopo, quando i personaggi iniziano a parlare di cosa voglia dire vivere immediatamente dopo la fine della Guerra civile, riflettendo sulle differenze che c’erano allora tra conservatori e democratici, in quel momento il film ha preso una direzione più politicizzata. Nel corso dell’anno che abbiamo impiegato per le riprese poi si sono verificati degli eventi, anche politici, per cui il film sembrava sempre più attinente a quello che succedeva nella realtà quotidiana. Capita che a volte tu abbia fortuna e quello che fai abbia una connessione con lo zeitgeist del momento.

Sulla valenza politica di The Hateful Eight intervengono poi anche i due attori presenti alla conferenza.

Michael Madsen: I film di Quentin tendono a risolvere i problemi più che a crearli. Che siano politici o di intrattenimento, sin dai tempi de Le Iene e di Kill Bill posso dire che c’è stata questa riflessione, questa connessione tra i suoi film e la quotidianità. Il fatto che si ripetano a lungo termini come “nigger”, a mio avviso, ne sgonfia la forza denigratoria. E’ come se a furia di ripeterlo se ne svilisca l’accezione negativa.

Kurt Russell: Una cosa che ho sempre amato di Tarantino è il modo in cui, nei suoi film, cerchi sempre di tessere una ragnatela. Il mio personaggio, ad esempio, rappresenta l’America. In tutto il mondo sapevano dell’esistenza di questo Paese, gli Stati Uniti, in cui chiunque, anche la persona più insignificante, si meritava un processo in tribunale. E il mio personaggio – John Ruth, detto “il boia”, vuole onorare questa pietra miliare del sistema giudiziario americano.

Fabio Giusti



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