C'è Puškin. L'Onegin. E c'è una prima teatrale, allo Jaunais Rīgas teātris diretto dal più talentuoso registra teatrale lettone e forse europeo, Alvis Hermanis. "Oņegins. Komentāri" si chiama lo spettacolo. C'è Onegin, c'è Tatjana e c'è la società russa dell'ottocento che Puškin voleva descrivere, prendendo a pretesto una banale storia d'amore.
E poi c'è Inga Ābele, una delle migliori voci della nuova letteratura lettone, che ha scritto una recensione dello spettacolo diretto da Hermanis. Una cosa a modo suo. Strana anche. C'è dentro il teatro, la fisica quantistica, la creatività, la poetica. Soprattutto. E per finire una poesia di Vizma Belševica.
Io ho provato a tradurre tutto quanto, senza saper bene cosa ne sarebbe uscito. Ma tacerlo mi sembrava impossibile.
di Inga Ābele
Raups una volta ha scritto che la poesia è un piatto pronto che, se uno vuole, può cominciare ad indagare. L'era della poesia, a mio parere, nella storia di ogni uomo e di ogni civiltà finisce quando il bambino smette di portare i pannolini, ossia con l'inizio del pensiero logico, l'uomo si tende e spara la poesia - un attimo concentrato come un proiettile - in qualche direzione, verso qualche vettore.All'inizio del XX secolo in teatro si recitava poesia attraverso la fisica. L'altra sera ho assistito alla prima dell'Oņegins. Komentāri, allo Jaunais Rīgas teātris, dove il linguaggio poetico si è espresso attraverso la fisiologia. Dagli odori, i pidocchi, i capelli che cascano, le flautolenze, le gocce di mestruazioni del primo atto come Afrodite fra la schiuma di sangue di Urano castrato, così sorge l'amore di Onegin e Tatjana Larina, per finire nel secondo con la morte tornata brutta come una scimmia.Il secondo atto racconta di più la società aristocratica. Il duello nella società di quell'epoca era una manifestazione dell'incoscienza, dove un uomo, a dispetto del senso comune, poteva uccidere un proprio amico per onore e finire in esilio. Quando i creatori dello spettacolo gettano il guanto di sfida al pubblico, senza che la nostra società plebea contemporanea ovviamente comprenda il concetto d'onore, io mi sento già dentro lo spettacolo e mi sembra persino strano, che la società non insorga e non chiami a duello gli autori dello spettacolo.
Si scambino sguardi, inghiotton il rospo, ma non si alzano ad invitare a duello i i creatori, poiché nel duello non combatte già più un aristocratico con un uomo di basso rango, ma nel tempo tutto si è confuso.
Nel tempo lo spettacolo confonde un po' le lingue, sino al finale in cui la Tatjana del JRT risponde in una scansione ritmica all'Onegin del JRT, che risuona già come un testo sacro, dove il russo e il lettone crescono insieme mischiandosi come sangue e carne, formando una lingua nuova.Infine la profonda poesia di Astrīde Ivaska, che è citata nel programma dello spettacolo, mi lega di nuovo a stretto nodo al mondo incompiuto e io lo metto in tasca. Uscire fra la corrente del pubblico di notte, respirare il vento della strada, in ogni sedile dell'autobus ascoltare i vari rumori dei telefoni, che non si può osare definire musiche, ed io che rifletto su come si possa essere poeti nel nostro tempo.
Un caro amico, fisico quantista, che lavora in Germania alla creazione di un computer quantistico, mi scrive che il linguaggio poetico può essere espresso solo attraverso un sogno comune. Quando gli ho chiesto, come fisico, in che modo esprimere il concetto di tempo, lui ha risposto che i fisici non hanno ancora una risposta univoca. Ne sono rimasta felice - allora i poeti hanno ancora qualcosa da fare! Lui ha precisato - certo, in precedenza furono queste le questioni che hanno tormentato i fisici, dove e come è nato il mondo e come finirà, adesso più che i fisici riguardano i matematici, che provano a simulare attraverso i loro calcoli il movimento dell'elettricità.
Oggi ho trovato in un mio vecchio quaderno, fra le ricette, qualche idea, e le impressioni quotidiane, una poesia di Vizma Belševica, da Dzeltu laika. L'ho letta e subito è stato come quando in una notte di primavera gli uccelli migratori volano sopra la terra patria - non voglio sapere. Solo ammutolire ed essere.
Beati quei poveri di spirito,
dalle menti annebbiate come i prati serotini
poiché a loro appartiene il regno dei cieli
senza cognizione della loro debolezza.
Tu parli forte. E così fino alla fine!
E non mentire, che t'abbia guidato Dio.
Da quando cominciasti a distinguere fra il bene e il male
non esiste paradiso. Tu semplicemente - sai.
E nel deserto roccioso della mente
devi faticare col sudore della fronte
per coltivare una magra illusione,
qualche impalpabile fiore di fragile fede.
Custodire fra le mani la gemma e del respiro
fare incerto riparo in una gelida risata,
terrai per felice quel breve attimo
per il quale ti riuscirà d'ingannare te stesso.
Vizma Belševica (trad. Paolo Pantaleo)
Svētīgi ir tie garā vājie,
Kā vakara pļavas miglotiem prātiem,
Jo viņiem pieder debesu valstība
Savu vājumu neapzināties.
Tu sakies stipra. Tad esi līdz galam!
Un nav ko melot, ka Dievs tevi dzinis.
Kopš sāki atšķirt labu no ļaun
Nav paradīzes. Tu vienkārši – zini.
Un prāta tuksnesī akmeņainā
Tev tagad jāpūlas vaiga sviedros
Ieaudzēt mazu ilūziju.
Kādu gaisīgi trauslu ticības ziedu.
Turēt ap pumpuru plaukstu un elpas
Nedrošo aizvēju ledainā smieklā,
Un laimīgai būt šo īso brīdi,
Uz kuru tev izdosies sevi piekrāpt.