India Namaste

Da Lara Ruzza @ruzzieri

E’ iniziato l’autunno. me ne sono resa conto stamattina, quando una foglia mi è caduta davanti. Mi sono guardata attorno e gli alberi hanno cominciato a dirmi che sono stanchi.

Mcapitò in India di essere accarezzata dalla foglia dell’albero più sacro per il mondo buddista: a Bodhgayasotto la pianta cresciuta dal seme dell’originale albero della Bodhi (Illuminazione), un monaco mi stava raccontando che solo le persone meritevoli sono accarezzate dalle foglie della pianta. E proprio mentre il monaco, con il suo incedere lento, mi raccontava del Buddha e dei suoi insegnamenti, una foglia mi cadde sulla testa. La conservo tra le pagine sgualcite della mia Lonely Planet, nella speranza di meritarla ancora.

Era il 2007, e l’India del Nord fu l’ultimo viaggio con la mia amica Sabrina, quello che segnò la linea di confine tra quello che ero e quello che non sarei più stata. Insieme avevamo scoperto l’India del Sud molti anni prima, nel 1999, in un viaggio mitico iniziato in un orfanotrofio di Madras e terminato alla festa dei colori in Kashmir, in una situazione surreale tra carri armati, militari e gente sorridente ricoperta di colore.

In quel viaggio mitico, tutto sembrava volerci condurre a  Dharmasala, la sede del governo tibetano in esilio. E lì arrivammo. Assistemmo alle lezioni del Dalai Lama nonostante non avessimo i permessi, trovammo un albergo delizioso nonostante il paese (15000 anima a 1800 msl) fosse prenotato da mesi per l’arrivo dell’Oceano di Saggezza. Ma a Dharmasala non conta la burocrazia, ma il Karma, e tutto fu meraviglioso.

Io non ho le parole per poter raccontare quell’esperienza, per trasferire le emozioni che ancora oggi mi accompagnano pensando a quel momento. Io non ho parole per descrivere la forza di quell’uomo minuto e sorridente, che con il suo sguardo mite e penetrante ha guardato nel cuore di tutti i presenti. Io non ho parole per ringraziare la resistenza non-violenta che sta combattendo in difesa dell’Identità tibetana.

L’India un pò mi appartiene: è così grande e confusa, fiera e melanconica. Ci sono tornata diverse volte nella vita, e sempre mi ha ospitato con generosità. Ma infiniti sono i ricordi che mi legano a questa terra, che sta cambiando così tanto e che oggi mi incute soggezione.

A Calcutta (Kolkata), alla ricerca degli ospedali di Madre Teresa incontrammo Lacchmi, una donna che ci aprì le porte di casa e ci fece conoscere la sua meravigliosa mamma. (la mia Nanny, che oggi non c’è più).

L’incantevole Rajastan e le cesellate Haveli, con le loro storie antiche avvolte di mistero; Jahisalmer e il deserto del Thar accompagnata dai canti notturni del nostro cammelliere intorno al fuoco, con le sue storie tristi e fiumi di birra.

A quel cammelliere donai l’orologio che anni prima mi regalò mio padre: un caro ricordo, non un vero e proprio gioiello di famiglia, si intenda. Ma quell’uomo silenzioso con il suo cane, mi fece intendere che nel deserto il tempo non passa mai. E se non hai la dimensione del tempo che passa, è come se ogni giorno fosse uguale.

Fu un discorso struggente, raccontato con un filo di voce sotto le stelle basse del deserto del Thar. Quasi una confidenza, diversa dalle solite storie raccontate ai turisti . Al momento dei saluti volevo ringraziarlo per quei segreti.
“Mi hai regalato il tempo” mi disse… “Spero di non pentirmene” risposi. Perchè vedere il tempo che passa nel deserto mi dava la sensazione che sarebbe stata semplicemente una lenta tortura.

A Puskhar mi innamorai di Gordon, un piccolo mendicante che trascorse con me l’intera giornata (e non solo per elemosina). Quel giorno vidi il mondo con gli occhi di un bambino… impagabile!

E ancora le truffe di Varanasi, il Gange, i ragazzi di Jaipur che sognano di diventare stelle di Bollywood … quanta India c’è ancora in me, se solo la sapessi raccontare …



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