India: vita sofferta vita reale

Creato il 27 ottobre 2014 da Agilio @Agilioit

“Il pregio del viaggiare consiste nella paura. Spezza in noi una specie di apparato scenico interno. Non è più possibile barare – mascherarsi dietro ore d’ufficio o di studio (quelle ore contro cui protestiamo tanto e che ci difendono con tanta sicurezza dalla sofferenza d’esser soli). Per questo avrei sempre voglia di scrivere romanzi i cui personaggi dicano: «Che sarebbe di me senza le ore d’ufficio?» o anche: «Mia moglie è morta, ma per fortuna ho un gran fascio di atti da redigere per domani». Il viaggio ci toglie questo rifugio. Lontano dai parenti, dalla lingua, strappati a tutti i nostri sostegni, privi delle nostre maschere (non si conoscono le tariffe dei tram ed è tutto così), siamo completamente alla superficie di noi stessi. Ma sentendoci male all’anima, restituiamo ad ogni essere, ad ogni oggetto, il suo valore di miracolo.” È una frase che ho letto tempo fa in una raccolta di brani di Albert Camus (Il rovescio e il diritto). La portai con me durante un recente viaggio in India. Un viaggio alla ricerca della vita e della sofferenza. Non meditato, non organizzato, solo fortemente voluto. Giusto quelle due settimane di tempo per fare vaccinazioni, visto e congelare i vari impegni quotidiani che la vita ti butta continuamente addosso: università, famiglia, amici, il cuore e poco più: insomma tutto congelabile, almeno per un mese. Nello zaino solo qualche vestito, un po’ di libri, un diario e la macchina fotografica. Indispensabile la solitudine per un viaggio del genere. Meta: Calcutta, dalle Missionarie della Carità, l’ordine fondato da Madre Teresa.
Non sapevo cos’aspettarmi e non volevo aspettarmi nulla. Non era tanto uno scappare dalla quotidianità, quanto un immergermi nella naturalità della vita.  Quella vita che è veramente essenziale: è vivere per strada, guadagnare qualche rupia seduti su un marciapiede, comprarsi un pugno di riso, se si è fortunati qualcosa di più, e dormire su un fazzoletto steso lungo il marciapiede. O per i più intraprendenti sul pavimento del negozietto che rimane aperto fino a tarda sera sperando nei turisti, meglio se bianchi perché ricchi.

L’essenzialità raggiunta dagli indiani è a dir poco insopportabile. Un occidentale certo non potrebbe sostenerla. Si fa presto ad andare in India per cercare se stessi, la spiritualità, la pace del cuore e del cosmo. In India non si trova nulla di tutto questo: è un caos infernale, è un puzzo mischiato di cibo, smog, spazzatura e animali. Il tempo è scandito dai clacson dei taxi che si tuffano nelle strade senza alcun tipo di regolarità, dalla musica che esce dagli altoparlanti in strada, nei negozi, nelle case, nelle macchine, sono le urla dei venditori ambulanti, dei controllori sull’autobus che a ogni fermata gridano il luogo che raggiungeranno, perché non c’è la scritta. La spiritualità la si trova nei tempietti incastrati tra un negozietto e l’altro o in mezzo ad un incrocio; e più che luoghi di culto sembrano vetrine con esposti statue e fiori e incensi. Anche la spiritualità è essenziale e ridotta al semplice culto, qua e là idolatrico e stupido, oseremmo dire noi. È un dare grazie al dono dell’esistenza e un chiedere grazie per il mistero del futuro, che è destino. Quindi chiedere la forza di accettarlo e amarlo: in questo consiste la loro felicità.
La spiritualità esotica che cerchiamo noi occidentali comporta lo stare lontani dalle città e quindi non conoscere l’India, significa avere soldi e permettersi una sorta di ritiro dal mondo, significa esiliarsi e immergersi in luoghi naturali, silenziosi, magnifici da cui sembra che il divino ci parli. A questo riguardo, penso che la medesima esperienza spirituale (il fatto di allontanarsi dal mondo che ci asfissia per cercare Dio o qualcosa di soprannaturale), mentre da noi verrebbe visto come qualcosa di assurdo e bigotto, il fatto di farla in India la rende degna di approvazione e invidia.
La gente normale, quella che ha una vita immersa nel divenire, quella che vive la quotidianità con la spensieratezza e la drammaticità tipica di un uomo indaffarato perché incastrato nei vincoli che il tempo inevitabilmente pone, vive l’indifferenza. Gli indiani sono impregnati d’induismo, il che comporta annullamento del desiderio e al contempo annullamento della sofferenza. La ricerca, ai nostri occhi assurda, dell’indifferenza è per loro una premessa per vivere. Se la vita è insopportabile, e lo è, allora l’antidoto è annullarsi, l’annichilimento delle passioni porta all’essenzialità della vita, e in questa semplicità vivono trascinandosi i giorni nell’eternità, in quel ciclo vitale e infinito in cui non solo credono, ma vivono. Eppure, a discapito di tutte le nostre ragionevoli conclusioni, sono uomini felici, amano la vita e amano la pace. Sorridono e sono buoni. 

Accettare il proprio destino è il primo passo per amare l’esistenza.

Sono completamente diversi da noi, sarà la religione e la cultura ad essa intrinseca: noi non facciamo altro che accumulare (e in questo verbo inserisco sia un positivo impegno per il futuro che un negativo pensare solo al futuro); loro vivono il presente che da amanti del fato non importa loro cambiare. Noi non siamo mai contenti del nostro presente e troppo spesso per vivere c’immergiamo malinconicamente nei ricordi o follemente in utopie future; loro non avendo questo bisogno, vivono. In India semplicemente si vive. La felicità semplice di un popolo così incosciente e indifferente.
A nostra difesa potremmo chiederci che vita sia, questa, così statica nella sua indigenza e povertà, nella sua poca intellettualità. In India non si pensa, si soffre. La sofferenza per quanto possa essere annullata da quell’annichilimento volontario e insieme inconsapevole di cui ho accennato, è parte strutturale dell’indiano. Ho imparato che la sostanza di una persona sia proprio questa: la sofferenza che si ha dentro, quanto si è disposti a non usarla come mezzo di attenzione e vittimismo; potremmo chiamarla ‘sofferenza matura’.

E alla fine questa vita rischia di diventare anche affascinante, ti seduce nel profondo. Molleresti tutto per provare un’esperienza così radicale, così poco costruita. La naturalità delle cose dall’essere insopportabile diventa attraente. Inizi ad odiare il superfluo, perché ti rendi conto che è superficiale, è un pieno che non ci riempie  ma ci soffoca, ci acceca; ci rende insensibili rispetto al significato vero dell’esistenza, anzi il nostro essere perennemente indaffarati non ci fa godere e soffrire del nudo e misterioso esistere. Provi quasi invidia per quel popolo, non contaminato dalle nostre ansie, i nostri obiettivi, le nostre lotte. Invidia per quella passività così drammatica e vorresti spogliarti del tuo passato e del presente e tuffarti in questo mondo senza spazio e senza tempo. È come se avessero già anticipato l’eternità sulla terra: infatti si nasce e si muore senza far rumore. C’è un rischio, però, in questo: “puoi anche decidere di vivere come i poveri ma finché hai una carta di credito in tasca non ha senso”. E’ un ammonimento che mi ha fatto una signora italiana, che ora vive là come volontaria. Lei aveva intuito questo assurdo desiderio di assomigliare ai poveri, eppure non è caduta in quella che potrebbe diventare la parodia di un santo, cioè la parodia della radicalità. Santo come sinonimo di radicalità. Non si può assomigliare al povero coi soldi in tasca, nemmeno assomigliare ad un indiano col biglietto di ritorno in tasca. Accettare le nostre radici e vivere di conseguenza è forse l’unico modo per trovare la profonda pienezza della vita e per far questo servono certamente esperienze che siano più vaste dell’ambiente in cui si è nati. Altrimenti, unica alternativa, fare scelte radicali comprensibili solo secondo una vocazione soprannaturale. Tertium non datur.


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