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Indiscrezioni sul bello. Prolegomeni alla fondazione di un’estetica del piacere 2/6

Creato il 16 febbraio 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura
Nicolas Regnier,

Nicolas Regnier, “San Sebastiano” (1590-1667)

Di VINCENZO LIGUORI

II

In principio il bello era bonus, come dire che un’etica colmava il vuoto di un’estetica ancora in nuce. Il bello si fondeva al bene e con esso formava un’indissolubile endiade, due facce di un corpo solo.

Al bello, insomma, era attribuito il compito di condurre al supremo Bene Assoluto, ma nulla a che fare con il piacere o con la carne corrotta dai sensi.

Nella disputa con il bello, dunque, il corpo perde vergognosamente. L’umiliazione che esso deve subire a più riprese, è stigmatizzata dalle infuocate parole di Arnobio o di Plotino: nient’altro che «otri di escrementi, immonde giare d’urina» (Arnobio – Adversus nationes, II, 37) dove la bellezza non è che «il loro sangue e il loro mestruo» (Plotino – Enneadi, V8, 2). Così, di ogni uomo, essi percepiscono il corpo di cui non bramano che il repentino abbandono e la perdita. Non lontana da queste tremende visioni è la concezione del corpo – inteso come carne (sarkòs) – per San Paolo: «[…] Fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia, ire, ambizioni, discordie, divisioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere» (Gal 5, 19-21).

Il bello e il bene non amano zavorre. Da questo assunto si capisce la perplessità manifestata da Socrate in quel motteggio platonico del sofista Ippia. La sua eco risuonò a lungo tra i posteri al pari di un solenne rimprovero. Come anche una pignatta potesse essere bella e condurre al bene, rimase per Socrate un imponderabile cruccio, un enigma irrisolto simile a una sconfitta. L’inspiegabile perché una giumenta, una lira o un mestolo di legno di fico fossero belli come in seguito per Plotino infinitamente belli furono soltanto gli dèi, acuiva lo spregio del filosofo ateniese per il suo malcapitato interlocutore dal quale, oltretutto, fingeva di apprendere. Socrate, infatti, investe lo sventurato con la sua solita ironia da quattro soldi ma la maieutica, questa volta, non lo soccorre. Imbarazzato, deve abbandonare l’agone e arrendersi: «La bellezza è difficile», con questa frase il tema del bello è infine consegnato al suo miserabile destino. La ridicola disputa tra il sofista Ippia e il perdigiorno Socrate si spegne così, con questa laconica espressione mentre Platone finalmente archivia l’argomento e congeda le sue logorroiche controfigure.

Il punto d’arrivo di una morale segna l’inevitabile declino del piacere. È giusto? È bene? essa s’interroga. Ma nel momento stesso in cui questi dubbi categoricamente si manifestano, il piacere è sconfitto, avvilito, ridotto a un nonnulla. A esso si sostituisce quella sofferenza che, come una stilettata, ancora una volta, giunge dalle ingiallite pagine del vecchio Kant. Le inclinazioni al piacere, la sensibilità e la presunzione subiscono l’umiliazione e il danno di una legge morale che, secondo il vegliardo, «[…] deve produrre un sentimento che può essere chiamato dolore» (I. Kant – Critica della ragion pratica). Detto diversamente, i sensi soffrono e gemono nell’attimo stesso in cui l’agognato Bene Assoluto è finalmente raggiunto. Ma con De Quincey ci piace ripetere: «Si è concesso già abbastanza alle esigenze della morale; ora è il turno del gusto e delle belle arti» (Th. De Quincey – L’assassinio come una delle belle arti).

[Continua…]


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