Sia chiaro, l'errore del doping va denunciato, ma è opportuno interrogarsi su come un atleta di punta sia arrivato a questa decisione, e stupirà vedere come, al netto del caso specifico, vi sia una condizione comune a tanti giovani. La conferenza stampa odierna, così, è un aiuto prezioso, poiché mette in luce la difficoltà psicologica del marciatore, lasciato solo nella necessità di vincere per essere qualcuno. Di vincere per essere felice. Di essere l'uomo copertina, di essere come gli altri ti vogliono per essere realizzato.
Lascio ad altri giudicare la sincerità delle parole, l'opportunità del pentimento, la veridicità dell'atleta. A me non interessa individuare chi stia proteggendo, addossandosi tutta la colpa; bensì rilevare che nelle sue parole traspariva una linea di pensiero che nel racconto di sé, veniva espressa in tutta la sua lucida ed inquietante realtà. Anni e mesi di fatica, di un dolore tenuto dentro che mostra i difetti della cultura in cui viviamo.
Oltre alla critica allo sport, "tante volte in Italia succede che tutto va un po' a caso, e ci si alleni casualmente", ha detto, denunciando a sua volta la facilità di certi giornalisti che vedono nel doping un modo per evitare la fatica, "non è solo il doping che ti fa andare forte, prima devi allenarti"... Oltre a questo e ad una solitudine che circonda gli atleti degli sport cosiddetti minori (in Italia tutto è minore rispetto al calcio e alla televisione), c'è stato il racconto di una convinzione fallita, quella di pensare di doversela cavare da soli, di essere soli quando si vince, di costruirsi da soli, di non poter perdere. Di vivere non più per una passione diventata professione (e quando parlava della sua passione per la marcia gli si illuminavano gli occhi, certo uno dei momenti più veri dell'intervista), ma per una passione che si sviluppa a scapito di tutto il resto. L'inganno, infatti, non sta nell'avere un sogno da realizzare, ma nel pensare che noi siamo quell'unica cosa, monolitici e fissi come una statua di sale, e che dobbiamo emergere attraverso lotte contro difficoltà insormontabili in cui sono gli altri, prima che le cose, a rap-presentare gli ostacoli della nostra felicità. Emergere sugli altri per essere felici, come se fosse una condizione che ci costruiamo da soli, sia nei chilometri di allenamento solitario (vedi Rambo), sia nella necessità di distruggere gli altri, di annullarli perché non sono che un limite per noi (vedi Rocky). Diventiamo, pertanto, fenomeni televisi, schiacciati da una cultura che ci convince che dobbiamo farcela da soli e che non possiamo mai essere deboli.
Due errori enormi, che oggi ci si mostrano nell'esempio toccante del marciatore. Non ci si fa da soli, se non come drogati (come diceva la mia professoressa di filosofia del liceo, riferendosi a qualche imprenditore culturale italiano), e si può essere deboli di fronte alla realtà. Eroi del nulla, di quel nulla televisivo che i reality show richiedono e vogliono rappresentare, che trasformano in reale qualcosa di fasullo.
Contro questa cultura, ci facciamo da soli a scapito di tutti gli altri, e siamo sempre perfetti, è necessario combattere con vigore. Lo sport deve ripartire da qui. E se oggi Schwazer ci fa un po' più di compassione è perché l'abbiamo visto vicino a noi, simile a come siamo anche noi, combattenti in un mondo che ci vuole sempre perfetti e battuti da un mondo che ci lascia soli.
Non mediocre. Ma felice dalle cose semplici, realizzata in se stessa e non solo nella partecipazione televisiva.
E nella società individualistica in cui gli atleti finiscono presto per andare a fare reality show e in cui i giovani sono triturati dall'esigenza di dover apparire, le parole odierne di Schwazer suonano come un campanello d'allarme e come un bell'esempio di un limite che ancora questa deriva culturale non riesce a valicare: le lacrime di chi vuole essere, invece che apparire a qualcuno. Se nonostante la denuncia del doping ci sentiamo vicini all'atleta, infatti, è perché oggi abbiamo visto la sua umanità, che non è quella di chi si isola (sull'Isola dei famosi, magari), ma di chi fa della propria debolezza una via per ritornare a vivere sconfiggendo questa cultura del nulla.