di Vincenza Lofino
Una colonia in perenne lotta
Nei primi anni Sessanta, Sukarno cercò di mantenere l’equilibrio politico, sempre più precario, tra il potere militare e il PKI, che era cresciuto al punto di diventare il terzo più grande partito comunista al mondo dopo quello sovietico e cinese. Nel settembre 1965, un gruppo di giovani ufficiali rivoluzionari sostenuto da alcuni membri del PKI, uccise sei generali in un misterioso complotto, annunciando di aver preso il potere per prevenire un colpo di Stato militare. Tra i sopravvissuti vi era il generale Suharto, cha da giovane si era arruolato nel corpo dei volontari addestrati sotto il comando giapponese in seguito all’invasione dell’Indonesia dopo la fine della seconda guerra mondiale. All’epoca i nipponici avevano conquistato rapidamente l’appoggio dell’élite nazionalista indonesiana, in nome di un fronte comune contro l’imperialismo “bianco” per l’indipendenza dall’Olanda. Il generale Suharto, radunato l’esercito reale, prese formalmente il posto di Sukarno nel 1967 e istituì il “Nuovo Ordine”, dicitura con cui si identifica il trentennio di autoritarismo (1967-1998) con cui Suharto distinse il suo governo dal “vecchio ordine” condotto dal predecessore.
Nazionalismo e anticomunismo resteranno i due aspetti chiave dell’ideologia di Suharto, che indicava nel partito comunista il mandante di esecuzioni e la causa di ogni violenza. Per tale ragione incoraggiò gruppi di giovani musulmani locali per combattere tutti i membri appartenenti al PKI: in pochi mesi vennero massacrati 500 mila cittadini, altri furono incarcerati o, ancora, licenziati. In particolare fu la minoranza etnica cinese ad essere presa di mira dalle persecuzioni e dai massacri perché sospettata di essere la “quinta colonna” di Mao Tse- tung in tutto l’arcipelago.
Il terrore che ha regnato durante il Nuovo Ordine si è fondato su una fitta rete di agenzie di spionaggio che hanno controllato ogni forma di dissenso e schiacciato la libertà d’espressione. L’apertura alla globalizzazione, la crisi finanziaria asiatica del 1997, la crescente insoddisfazione verso il governo di Suharto e la corruzione inarrestabile della sua famiglia, cancellarono ogni residuo di consenso verso il regime e aprirono la strada alla democrazia.
Una terra di conflitti
Gli anni di Suharto al potere furono segnati da scie di violenza che durarono sino al 1998. L’autoritarismo è stata la causa della maggior parte dei conflitti nel Paese, benché le origini di questi abbiano avuto origini ben più profonde. Questi i principali focolai di guerra suddivisi per area:
Nuova Guinea Occidentale (che oggi comprende le province Papua e Papua Occidentale ad ovest dell’isola Nuova Guinea) – La pressione delle Nazioni Unite nei confronti dei Paesi Bassi che mantenevano il controllo dell’isola, portò nel 1969 al referendum per l’autodeterminazione: l’Act of Free Choice decretò all’unanimità l’annessione all’Indonesia. Tuttavia quest’ultima praticò una politica fortemente repressiva e l’area fu trascurata dai piani di sviluppo nazionali. Si stima che oltre 100.000 papuani siano morti in atti di distruzione, tortura, violenza e sparizione e che migliaia siano stati i rifugiati. Solo nel 2001 una legge garantì all’area uno status di “Autonomia Speciale”; nel 2003, infine, il governo Megawati, figlia di Sukarno, divise la Guinea Occidentale in due province: le attuali Papua e Papua occidentale.
Nonostante tale autonomia abbia rappresentato un traguardo importante per la stabilità, sono diversi i nodi che restano da risolvere: la formazione di gruppi di guerriglieri separatisti (come il Movimento Papua Libero – Organisasi Papua Merdeka/OPM), le tensioni legate all’inversione demografica tra le popolazioni indigena e non indigena, la mancanza di equità nell’accesso alle ricchezze e alle risorse naturali, la mancanza di dialogo culturale, lo stallo nell’esercizio delle libertà politiche, la mancanza di raccordo tra governo nazionale ed autorità locali. Tutti problemi che alimentano instabilità e sfiducia nei confronti delle istituzioni e del governo di Giakarta.
Aceh (o Nanggroe Aceh Darussalam) – Situata a nord dell’isola di Sumatra, la provincia resistette al dominio olandese più di ogni altra zona dell’Indonesia. Le rivendicazioni pro-autonomia non trovarono però mai accoglimento da parte del governo. Ne derivò una ribellione armata organizzata dal gruppo islamista Darul Islam nel 1953 che però fu presto sconfitto. Pochi anni più tardi, alcuni ex membri formarono un movimento per l’indipendenza chiamato Free Aceh Movement (Gerakan Aceh Merdeka o GAM). Il governo Suharto lanciò una lunga offensiva massiccia contro gli insurrezionalisti per tutto il periodo tra 1990-1998 ma gli abusi perpetuati dall’esercito non trovarono mai giustizia. Approfittando del malcontento popolare, dell’arrivo della nuova apertura politica post Suharto e prendendo spunto dal referendum per l’indipendenza indetto da Timor Est nel 1999, il GAM si ripropose con violenza nel 1999-2000. I negoziati tra il governo e alcuni esponenti del movimento, grazie anche alla mediazione del Centro Henry Dunant, fermarono temporaneamente la scia di violenza.
Solo lo tsunami del 2004, che causò centinaia di migliaia di morti nella provincia di Aceh, e l’arrivo degli aiuti umanitari internazionali riuscirono a placare l’odio del gruppo. I colloqui di Helsinki nell’agosto 2005, mediati dall’ONG Crisis Management Initiative, portarono il GAM e il governo ad un accordo di pace storico, in base al quale i anche i partiti politici locali come il Partai Aceh (o Aceh Party), portavoce delle istanze GAM, furono ammessi a partecipare alle elezioni provinciali.
Tuttavia le complicazioni post-conflitto rimangono ad oggi irrisolti: l’assimilazione di ex combattenti GAM nella società, le azioni criminali (tra cui l’estorsione e i sequestri di persona da parte dei fanatici), i numerosi attacchi terroristici contro la sede del Partai Aceh, l’insediamento delle rimostranze storiche e il timore diffuso di nuovi appelli all’indipendenza da parte dei militanti del GAM.
Ambon e Isole Molucche – La parte meridionale dell’arcipelago delle Molucche (conosciute anche come Moluccas, Isole Moluccan o semplicemente col termine indonesiano Maluku) è stata una delle poche aree delle Indie Orientali Olandesi a preferire il controllo olandese. Alcuni leader proclamarono la Repubblica delle Molucche del Sud (RMS) nel 1950 piuttosto che sottomettersi al controllo di Giacarta. In gran parte cristiano in una zona equamente divisa tra cristiani e musulmani, il movimento RMS fu rovesciato dal governo dopo una breve ma sanguinosa battaglia, costringendo circa 12.000 famiglie a fuggire verso i Paesi Bassi.
La convivenza tra cristiani e musulmani ha continuato ad essere sostanzialmente pacifica fino alla fine del mese del digiuno musulmano nel 1999, quando un caso isolato ha dato vita ad una spirale di violenze – le cui cause non furono esclusivamente religiose, ama soprattutto economiche, politiche, etniche e locali – che provocarono circa 5.000 vittime e circa 500.000 sfollati. Il conflitto in quest’area, tra i peggiori che hanno afflitto la storia dell’Indonesia, si concluse con gli accordi di pace firmati all’inizio del 2002.
Latenti tensioni interreligiose, corruzione crescente, problemi legati ad un’equa distribuzione delle ricchezze e ad un equo accesso alla terra e alle risorse, minano ancora oggi la stabilità del territorio.
Sulawesi Centrale – Le battaglie tra cristiani e musulmani, spesso sostenuti dai diversi partiti politici in competizione, hanno portato nel giro di un paio d’anni, tra il 1998 e il 1999, ad un’escalation di violenza tra le due comunità. Poso è stata una delle zone più colpite, con il massacro di oltre 100 musulmani da parte dei cristiani. Gli accordi di Malino firmati nel dicembre 2001 servirono solo a diminuire l’intensità degli attacchi fra fazioni ma non ad eliminare il conflitto che si è protratto fino al 2006 a causa dell’azione di gruppi radicali come il Mujahidin KOMPAK e l’organizzazione terroristica Jemaah Islamiyah (JI).
Conclusioni: una giovane democrazia tra gestione e risoluzione dei conflitti interni
Il periodo post-Suharto in Indonesia, conosciuto come “Reformasi” (parola indonesiana che indica “Riforma”), rappresenta una nuova era politico-sociale aperta e liberale iniziata nel 1998 e portata avanti dall’attuale presidente, il moderato Susilo Bambang Yudhoyono. Le elezioni elettorali degli ultimi anni svoltesi in modo pacifico e legale e prive di scandali hanno mostrato che la democrazia ha finalmente messo radici nonostante permangano nostalgici di Suharto sulla scena politica e problemi storici legati all’influenza delle forze armate, alla minaccia di un fondamentalismo islamico e alle storiche tensioni lungo le linee etniche con la creazione di nuovi quartieri-ghetto. Senza contare il fallimento del governo nell’affrontare in modo efficace il problema dei rifugiati e quello delle elite locali e delle popolazioni indigene che basano il loro potere sul controllo del territorio e sulla repressione di sfollati e migranti.
Altri conflitti, come il massacro avvenuto nel Kalimantan – che è costato la vita a circa 1000 persone e che ha provocato circa 100.000 sfollati tra i Dayak indigeni e alcuni gruppi malesi contro un gruppo di maduresi immigrati –, e nuovi episodi di conflitto fra gruppi come a Bali e nel Timor Ovest sono, secondo analisti ed esperti, la prova di una convivenza insostenibile, della precarietà dell’equilibrio sociale, economico e culturale che regna ancora oggi in Indonesia. Prima ancora dei conflitti, sono spesso semplici episodi a scatenare faide: l’ultima in ordine di tempo (tra ottobre e novembre 2012) riguarda gli scontri che hanno portato all’uccisione di 14 persone nella provincia di Lampung, sull’isola di Sumatra, territorio a maggioranza musulmana dove l’odio interconfessionale fra musulmani e indù si mescola a divisioni etniche fra i nativi e migranti provenienti da Giava che da decenni vivono nella zona. All’origine di questa commistione vi è la “politica di trasmigrazione” promossa da Suharto, mirata a svuotare le aree più popolose del Paese come l’isola di Giava, per “riempirne” altre con una densità abitativa di gran lunga inferiore. Tra queste vi è appunto Lampung dove i migranti giavanesi hanno poi stabilito la dimora, promosso attività e praticato il culto di appartenenza.
Poter gestire autonomamente i conflitti ancora esistenti senza richiedere la mediazione internazionale, è, dopo la conquista della democrazia, e alla luce dei numerosi problemi, il traguardo più importante che il Paese dovrebbe raggiungere nell’era delle riforme.
A riprova di ciò, esistono casi e proposte che oggi offrono al Paese opportunità di cambiamento e spunti nuovi per riflettere e affermare nuove strategie per la prevenzione, la gestione e la risoluzione di conflitti futuri, come le iniziative del governo di deradicalizzare i movimenti fondamentalisti attraverso la cattura di influenti leader jihadisti e i dibattiti interni sull’uso legittimo della violenza, o, ancora, come la questione sempre aperta della comunità indigena di Papua che sogna l’indipendenza da Giakarta: il “dialogo costruttivo” con il governo centrale, così come recentemente proposto dal pastore Neles Tebay e dal ricercatore Muridan Widjoyo, è, nonostante tutte le difficoltà, ancora realizzabile – oltre che auspicabile – per un terra così, non solo geograficamente, frammentata.
Vincenza Lofino è Dottoressa in Lingue moderne per la Comunicazione Internazionale – indirizzo Economico (Università del Salento)
Per approfondire
[1] International Crisis Group, Indonesia conflict History, febbraio 2010