[IN]EDITO (racconti/e-book)
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Il mio Far West di Marino Magliani
Il ricordo più antico che ho dell’estremo ponente ligure appartiene a una specie di far west. Vedo il lungo corridoio della stazione di Ventimiglia, quello al fondo del quale si “passa” in Francia, attraverso una porta custodita dai frontalieri. Sono lì, in braccio a mia madre, sulle panche, in attesa di un treno proveniente dalla Francia, perché mio padre lavora in uno stabilimento balneare di Sainte-Maxim o Saint-Raphaël.
Sono gli anni Sessanta. Non ci ho mai pensato, non che non abbia mai pensato a questo ricordo, ma a un’altra cosa, quella per cui ho deciso di scrivere queste pagine.
Dov’erano in quel tempo Guido Seborga, Elio Lanteri e Lorenzo Muratore? Esattamente quel giorno di autunno (immagino fosse autunno quando mio padre terminava la stagione balneare e se non c’erano olive noi lo raggiungevamo a Ventimiglia, perché da lì si andava assieme in un paesino della Provenza dove il suo padrone e lontano parente possedeva una villa circondata da terreni con muretti da rialzare e siepi da curare), dov’erano allora Guido e Elio e Lorenzo? Poco distanti, o forse in viaggio, Elio a Salamanca, Guido a Torino o Parigi, Lorenzo a Roma? Avevano già combattuto, scritto libri, e viaggiato parecchio, amato, quando per me era ancora tutto spavento.
Cerco solo di capire la prima volta in cui le nostre vite, almeno geograficamente, si sono incrociate. Per me è importante. Mi piacerebbe pensare che anche per loro lo sia. È dunque possibile che loro fossero stati in Val Prino in quegli anni, magari tutti assieme, in due o tre macchine, l’intera compagnia che si radunava a Bordighera o Ventimiglia, per una gita sulla spalliera ossuta di Villatalla come fanno ora certi intellettuali della terra di frontiera che si fermano sotto il pino di Villatalla a fare colazione. Chissà, magari ero seduto sui gradoni di San Giacinto, fermo come un ponte, come mi ordinavano di stare i vecchi seduti al mio fianco quando ogni tanto scendeva o saliva una macchina, e loro, Guido, Elio e Lorenzo sono passati in macchina. E i nostri sguardi per un istante, in curva, si sono incrociati. Negli anni passavo spesso da Bordighera, ma distratto, distante, o troppo veloce, sulla moto di qualche amico diretti verso l’altro mio far west, le sabbie della Costa Brava. Ci sfioravamo appena, Bordighera ed io. Fin quando un giorno – mi ero fermato o mi avevano fermato, non saprei dire – non lessi di voli di farfalle dalle ali polverose e di voragini di luci. E presto anche Guido, Elio, e Lorenzo, attraverso le pagine di Biamonti, hanno penetrato quella che è la mia meridiana oscura nella Torre dei Venti. Dopo Biamonti conobbi Seborga: L’uomo di Camporosso (1), e poi Il figlio di Caino (2). Un giorno a una lettura delle mie cose si presentò Elio Lanteri. Mi disse come si diceva Gregorio in dialetto. Una parola che assomigliava al grixùu dei tordi, il verso del chiarore, dopo la notte, quando la bestia, mi insegnavano i vecchi del carruggio, è ancora incantata dalla rugiada. Diventammo subito amici fraterni con Elio.
Un giorno andai a casa sua nel paesino di Costa d’Oneglia, a bordo del mio ronzino azzurro, un Sì del ’92. Adriana, sua moglie, ci aveva preparato dei gamberetti buonissimi e al ritorno a casa mi colse un temporale. Temevo per i libri, Elio mi aveva dato un’edizione molto vecchia di Occhio folle, occhio lucido (3), di Guido, e un suo manoscritto che diventò poi La ballata della piccola piazza (4). Me li portai entrambi in Olanda e li lessi alla spiaggia, in un settembre calmo e mediterraneo. L’anno dopo, grazie al grande lavoro di Laura Hess e Massimo Novelli, riuscii a leggere molte più cose di Guido.
Chi è invece il terzo, un Lorenzo Muratore di cui sentivo parlare quando si toccava la letteratura di quell’ansa di terra e pietre di spiaggia, cactus e rocce porose e chiese? Sapevo che in gioventù era stato amico di Moravia e Seborga e che coi ragazzi della costa, coi Giorgio Loreti, i Matteo Lanteri, Elio Lanteri, Sergio Ciacio Biancheri, aveva sognato e nuotato, viaggiato. Un giorno – le mie cose letterarie spostate dal caso con la lentezza di un orologio solare a ore babilonesi, erano pur giunte intatte a quel far west ligure – uno di quei pomeriggi trascorsi a discutere di narrazioni con Francesco Improta o Paolo Veziano o Corrado Ramella al solito bar del lungomare bordigotto, mi dissero che Lorenzo Muratore voleva conoscermi. Parlammo a lungo, dei miei libri e di quelli di Guido e di Elio, e mi disse che mi avrebbe mandato per posta una sua lettura di Quella notte a Dolcedo (5). La ricevetti e poi tornai in Olanda, tornai o partii, non so mai bene cosa significhi venire quassù, ma durante l’inverno soggiornai nuovamente in Liguria, e una sera tardi, non avevo ancora acceso la stufa e forse neanche ancora raccolto in legnaia la cassetta di canne e pezzi di radice di ulivo, mi telefonò Lorenzo. Si sentiva il vento. Non era distante. Ci trovammo all’ingresso di un paese e bevemmo una tisana in un bar che ora mi dicono chiuso, poi uscimmo nel gelore di un ponte in salita, con l’aria dei colli e del torrente, e tremanti restammo a guardare la notte.
A casa lessi le pagine che mi aveva lasciato, poi scesi in legnaia a riempire la cassetta e risalii ad accendere la stufa. Mi rimisi alla lettura. Erano le letture dei miei romanzi e un editore per cui curai un’antologia volle farne un volumetto intitolandolo Pitture nere e altre immagini (6).
Incontrai ancora molte volte Elio (e qualcuna anche Lorenzo), al solito bar sul porto di Oneglia la mattina, a volte arrivava prima lui e lo trovavo seduto con gli amici. Altre ero io a vederlo arrivare da via Belgrano e attraversare la strada nel sole, davanti alla nuova biblioteca, e raggiungermi.
La memoria, mi ha scritto qualche giorno fa un amico con cui si parlava di voci, si è andata facendo più uditiva che visiva, ricordo meglio una persona che non c’è più se chiudo gli occhi, il suono della sua voce arriva prima all’orecchio, e poi l’immagine arriva dopo, e a volte non arriva, ma la voce sì. Si parlava di un mio libro, Il collezionista di tempo (7), che credo fosse piaciuto anche a Elio, a Lorenzo sicuramente. È la storia di un bambino, Gregorio, che sente le voci di altri suoi io che popolano altri mondi, lontani nel tempo, e anche le voci di un certo Lukas, attraverso una serie di mail dal futuro, che gli chiede di salvarlo. L’amico mi chiedeva se quel carteggio tra Gregorio e Lukas fosse una scrittura minerale o le parole che riceveva scritte avessero anche un suono. Gli ho risposto che non sapevo se la scrittura del futuro possa essere qualcosa di diverso dal filo spinato di parole che si dipana sullo schermo. Mi venne in mente che una volta Biamonti aveva chiesto a Rigoni Stern se sentiva ancora i tordi. Io, dissi all’amico, per qualche anno avevo sofferto di otite e perso del tutto lo zirlo del tordo. Da anziani, o da affetti di otite, si perdono queste cose, sono sibili nell’aria che sembrano arrivare da altre galassie e invece sono solo i voli dei tordi bottacci che passano a mezz’aria. Spiegai questo all’amico. I tordi zirlano di spavento (grixuano all’alba, sapevo) quando ti vedono, ma zirlano anche per chiamarsi. I cacciatori infilano una di quelle viti di metallo lunghe come il pollice in un pezzo di legno stagionato, poi danno uno scatto, brevissimo, con le dita, e lo sfregarsi dei corpi produce il verso del tordo. Forse la voce che sentiva Gregorio, dissi all’amico, o alla quale Gregorio collegava involontariamente il filo spinato della scrittura di Lukas, aveva un timbro del genere, animale o siderale.
Ora che il volto di Elio non lo vedo più, non mi resta che la sua voce, molto più forte, come sosteneva l’amico.
E poi quest’anno, di Elio ho ricevuto, attraverso Luigi Berio, le due fiabe della terra e del mare che i valorosi Sparajurij hanno curato per voi. Ne avevamo già parlato sulla collina delle Cascine di Oneglia, con Adriana e Paola. Ma quando Luigi me le ha date eravamo alla Foce di Imperia, un mezzogiorno molto tiepido e azzurro, seduti a un tavolino del bar Sognatori. Luigi attese che leggessi, prima una e poi l’altra fiaba – lessi prima la storia di Licia, e poi, alzato un istante lo sguardo a quel mare che potrebbe essere infinito, ma che secondo Darwin e Borges avrebbe poca importanza perché l’occhio umano inventa comunque un orizzonte a poche miglia, passai ai gemelli che hanno trascorso la vita a potare la vigna. E siamo rimasti a lungo in silenzio, come credo piaccia stare anche a Luigi e piaceva a Elio. Era come se dopo la lettura ci fossimo seduti al fondo dei filari, nella vigna dei gemelli, in silenzio. Elio mi aveva parlato di queste prose un giorno sul treno, dove entrambi diretti a Ventimiglia c’eravamo incontrati per puro caso. Ora erano le voci. Lo sono. Lo saranno. Spero per molti.
Cerca una poesia di Kavafis, mi disse l’amico, intitolata Voci (Fonès). Kavafis le chiama in originale “Kerebra”, cioè sentite proprio dal cervello.
Non sono ancora riuscito a trovarle, qui dove mi trovo in questa soffitta dell’Europa.
Poi quest’inverno, durante un mio soggiorno a Prelà, il paese umido lungo il Prino, ho rivisto Lorenzo. E in un bar, com’era successo l’anno prima, davanti a una tisana fumante, egli mi consegnò una cartellina di plastica azzurra ondulata. Conteneva 123 fogli battuti a macchina, che lui aveva rocambolescamente salvato da una situazione che, se vorrà, un giorno vi racconterà.
Lessi:
Avvenne per una congiuntura un giorno che, ostentatamente coperta di gioielli come un idolo delle Indie, Esterina si avvicinò alla vasca da bagno.
Ben più di un far west, le acque dove nuoto con Seborga, e la passeggiata accanto a Luigi Betocchi, e la conoscenza delle terrazze di Francesco Biamonti, dove mi porta Giancarlo, e la pace della piazza di Isolabona dove mi siedo con Paolo Veziano a raccontargli di come Gregorio Sanderi aveva pescato anguille con lui, e le passeggiate portorine con Giuseppe Conte, se di far west ligure si tratta, sono il mondo che comprende per me ogni luogo della letteratura, quest’estremo ponente ligure sono il mio Bastieto, la mia Sorba, i miei Avrigue e le mie Combray, i miei Macondo, le Langhe di Johnny e le strade e spiagge portoghesi di Pereira, sono anche questo mio Nord che attraverso a piedi o in bicicletta col mio amico Roland Fagel.
Concedetemi, per ultimo, come non si dovrebbe fare mai – ma siamo pur sempre in far west – la citazione da un saggio che Arnaldo Colasanti scrisse per i racconti di Vincenzo Pardini e miei.
Senza un rimpianto, senza piangere, senza voce. Non potevo che confessarvelo.
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Note
(1) Guido Seborga, L’uomo di Camporosso, Mondadori, Milano 1948, (2a ed., Spoon River, Torino 2004).
(2) Id., Il figlio di Caino, Mondadori, Milano 1949, (2a ed., Spoon River, Torino 2006).
(3) Id., Occhio folle, occhio lucido, Ceschina, Milano 1968.
(4) Elio Lanteri, La ballata della piccola piazza, Transeuropa, Massa 2009.
(5) Marino Magliani, Quella notte a Dolcedo, Longanesi, Milano 2008.
(6) Lorenzo Muratore, Pitture nere e altre immagini – Studio sui romanzi di Marino Magliani, Eumeswil Arti Grafiche, Broni 2010.
(7) Marino Magliani, Il collezionista di tempo, Sironi, Milano 2007.