Inevitabile preludio alla solitudine, l’inerzia senza tempo di Michelangelo Antonioni

Creato il 24 novembre 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Non è certo una novità o non si rischia di esagerare, affermando che Antonioni è uno dei più grandi autori italiani e non solo, se ne potrebbe scrivere libri interi, tante sono le riflessioni, le sensazioni e le controversie, che i suoi film possono suscitare.

In questo approfondimento, che vede commentati due dei suoi lavori tra i più belli, anche se è veramente difficilissimo scegliere quando si tratta di questo regista, si pone l’accento su alcuni dei temi che ricorrono spesso nella sua filmografia, e che ancora oggi, dopo qualche decennio, sono incredibilmente attuali.

L’inerzia, l’indolenza che accompagna il vissuto e l’esperienza di gran parte delle persone,  che scelgono una vita apatica, di minore esposizione, più comoda ma più vuota, a favore della forma, della materia, dell’apparire,  pagando poi questa scelta a caro prezzo.

Perché appare più pesante lo sforzo di esserci e di vivere portando avanti la propria essenza, di quello che si deve fare per pagare quel prezzo. Probabilmente perché viene pagato essendone incoscienti.

E Antonioni riesce a esprimere, forse come nessun altro, attraverso le immagini,  i suoi personaggi,  il suo racconto delle relazioni, il senso di impotenza e rassegnazione che deriva da questa amara realtà.

Le amicheMichelangelo Antonioni – Italia, 1955

Nel suo quarto lungometraggio, Antonioni attinge all’opera di Cesare Pavese, ispirandosi liberamente al suo racconto Tre donne sole per ritrarre, sullo sfondo di una Torino borghese, vuota e mondana, una condizione umana caratterizzata dalla rassegnazione, dall’immobilità, dall’indolenza di una vita che, data per impossibile la realizzazione del proprio essere sia individuale che in relazione, non può che essere vissuta quasi per inerzia, sottostando alle leggi della forma e dell’immagine, rinunciando  a priori alla sostanza, che anche se presente, sembra non avere la forza propulsiva necessaria per affermarsi, come sopraffatta dalla consapevolezza di un fallimento certo, dell’inutilità anche di provarci.

Tutti  i personaggi ruotano attorno a un senso pervasivo di rinuncia, all’accettazione di uno scorrere del tempo che va avanti comunque indipendentemente da desideri, istanze o sentimenti soggettivi, che sembrano dover soccombere all’inevitabile prevalere di una solitudine esistenziale che permea l’intera opera, così come la vita.

Paradossalmente, tale atmosfera di resa è sottolineata ed esaltata proprio dai barlumi di essenza  e di slancio che si scorgono distintamente negli sguardi e nei movimenti dei personaggi, una vitalità che esiste ma che è già stanca, già rassegnata, e che nei rari casi in cui tenta di entrare in gioco, in poco tempo è costretta ad arrendersi e perde inevitabilmente la partita, ridicola ad aver anche solo ipotizzato di poter avere spazio e voce.

E allora non ci si può innamorare perché l’amore non basta, non si può seguire il proprio talento perché la brama di riconoscimento e di successo lo soffoca, non si può godere della condivisione perché non appaga, non si possono coltivare delle amicizie sincere perché l’egoismo e la superficialità uccidono qualunque forma di empatia, e quando c’è l’empatia, manca comunque il coraggio di vivere aderendo a ciò che si prova, perché perdere una posizione spaventa di più che perdere se stessi o la possibilità di concedersi l’occasione di non essere soli, di rischiare una reciprocità.

Perché l’incontro è sempre e comunque impossibile.

Un’opera amara e pessimista che descrive una realtà in cui non c’è spazio per la speranza, in cui anche chi non è totalmente rassegnato e percepisce il peso di una vita vissuta nell’assenza di scopo, di passione, di colore, chi ne è insofferente, arriva al massimo a coinvolgersi emotivamente, a trovare lo stimolo per accendersi e per sentire il proprio calore, ma essendo una fiamma sola, che sola rimane, che non è alimentata da niente e da nessuno, non da un amore, non da un amico, non da altri stimoli, a un certo punto non può far altro che cedere e riconoscere che vive in un mondo che non è fatto per la luce e spende l’ultima energia per spegnerla.

Tutti gli altri sono arresi, ognuno ha le sue istanze ma nessuno, nessuno dei personaggi di questo film vi crede abbastanza da portarle avanti, anche il personaggio più genuino, meno legato a stereotipi sociali, non lotta mai per quello che vuole, non una volta esprime il proprio desiderio, i propri sentimenti, già certo che non siano degni di essere esauditi e corrisposti.

Il regista pone uno sguardo senza scampo su una realtà alla quale si approccia muovendosi su due piani complementari, quello esistenziale, affettivo e quello sociale, che alternandosi e intersecandosi, comunicano entrambi efficacemente la medesima amara e disillusa visione del mondo.

Un mondo in cui ognuno è fondamentalmente solo e non ha il senso del proprio valore, non dandosene mai abbastanza da potersi nutrire di sé, motivarsi e tanto meno estenderlo alla condivisione, all’amare un altro essere umano e da questo potersi far amare.

Premiato con il Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1955, il film è stato criticato su più fronti da parte dei lettori di diversi giornali torinesi, le cui lettere di protesta lamentavano il fatto che Antonioni  avrebbe dato un’immagine riduttiva e impoverita della città di Torino, scegliendo inadeguatamente le ambientazioni e non rispettando così il valore della città;  e ancora  si è obiettato al regista di essersi discostato eccessivamente dall’opera di Pavese, dandone un riproduzione per niente fedele.

Antonioni si è difeso da entrambi i biasimi, dichiarando che le sue sono state delle scelte volute, sia per quanto riguarda la città, che intenzionalmente non doveva prevalere sul taglio essenzialmente psicologico che ha voluto dare al film, sia per quanto riguarda le differenze con il testo di Pavese, affermando che una rappresentazione esattamente sovrapponibile, lungi dal valorizzarlo avrebbe danneggiato il testo dello scrittore, rivendicando inoltre la necessità del linguaggio cinematografico di non sottomettersi alla letteratura e in generale l’autonomia di qualsiasi forma d’arte nel dover brillare di luce propria.

Un lavoro intimo, già estremamente maturo nonostante si annoveri tra le prime opere della ricca filmografia  dell’autore;  uno sguardo senza tempo,  che indaga su tematiche ancora decisamente  attuali,  il cui valore è assolutamente universale.

L’avventura – Michelangelo Antonioni – Italia, 1960

Primo film della trilogia che comprende insieme ad esso i successivi La notte e L’eclissi, L’avventura è un’altra delle opere di Antonioni che obbliga lo spettatore a stare a stretto e continuo contatto con l’inerzia del vivere, costringendolo per due ore e venti minuti a tenere gli occhi su un essere umano incapace di amare anche quando lo sente, di soffrire per una perdita, di dar voce al proprio essere, ripiegando su una vita sterile, nella quale non si attinge alle proprie istanze ma ci si muove come burattini inanimati, spinti dall’andare del tempo e dallo scorrere del mondo esterno e non dalla propria anima.

Un particolare aspetto dei film di Antonioni, perlomeno di quelli usciti fino a questo, che mi colpisce, è il fatto che le immagini siano più coinvolgenti dei personaggi.

Il vissuto dell’autore traspare molto più dalla scelta delle inquadrature, da come posa lo sguardo sugli esterni, che non dal racconto, nel quale sembra scaricare tutta la disillusione, l’amarezza, il disprezzo per un mondo sterile al quale ci si deve rassegnare, che intossica, soffoca e satura qualsiasi slancio vitale ed emotivo.

La desolazione dei paesaggi, le scelta dei luoghi, dei particolari che contornano una scena, una panchina, un balcone, un albero, paradossalmente sono più vivi dei personaggi che ne sono al centro.

In essi si percepisce la tristezza, la mancanza di speranza, il dolore, immagini che trasmettono sempre vissuti estremamente sconsolati e sofferenti, ma molto più vitali dell’abulia e dell’ignavia che pervadono le figure umane e le loro vicissitudini.

Ed è proprio il contrasto tra la cappa inesorabile che avvolge le persone e la loro vita, e i pochi spiragli attraverso i quali si scorge il fluire di un’energia vitale, a rendere più potente il disturbo che crea quella cappa stessa, il senso di soffocamento, di prevaricazione, di oppressione che l’apatia e l’indolenza evocano, perché quegli sprazzi di energia che scorre sono lì come un’accusa amara, e si percepiscono proprio come scorci di luce, anche quando esprimono emozioni negative, purché vitali, a dimostrare che l’uomo non ne è privo, che ne è dotato, che non è morto, non è arido, ma sceglie di esserlo, sceglie di rinunciare a sé, di non ascoltarsi, di non aderire a ciò che sente, di accomodarsi su ciò che gli arriva, di adattarsi all’esterno, di passare da fuori. E di perdersi dentro. Lo sceglie.

Perché una scelta c’è sempre.

E l’uomo fa quella meno pericolosa, che lo espone di meno, che gli costa meno sforzo, che apparentemente gli consente di vivere più agiato, più comodo, smorzando la propria essenza sino a soffocarla e spegnerla.

Come nell’altrettanto disincantato e amaro Le amiche, anche qui, l’unico personaggio che si concede un po’ di respiro, che si lascia andare a quello che prova facendo fluire la propria linfa vitale, fatta di sensi di colpa, paure, insicurezze, slancio affettivo puro, e che nel vivere la sua essenza si illumina letteralmente, una Monica Vitti meravigliosa che in ogni momento in cui è in sintonia con se stessa, sia sofferente o felice, si muove con una leggerezza e un’energia che squarciano l’apatia che pervade tutto il resto, lasciando una scia in quell’opaca assenza di impeto, che lo esprime in mille modi, da sola o in presenza d’altri, incantandosi davanti a un tramonto, guardandosi allo specchio facendosi le smorfie, sorridendo, cantando, posando un bacio su una porta chiusa, innamorandosi, viene inevitabilmente mortificata, avvilita, schiacciata; costretta ad adeguarsi alla piccolezza del resto del mondo e ad accontentarsi di una carezza sul capo di un uomo altrettanto piccolo, il massimo che la vita possa darle, ciò che fino a quel momento le era sembrato enorme.

Mentre di enorme vi era solo quello che era dentro di lei.

E fa una tenerezza infinita quando mille volte durante l’evolversi di questo rapporto, di questa avventura, è incredula, le sembra impossibile che accada davvero, che ci sia spazio per qualcosa che sente così necessario e appagante, che stia accadendo a lei, ne chiede continua conferma, come stesse vivendo qualcosa che non può essere vero, di irrealizzabile.

E infatti è così, non lo è, la sua bellissima vulnerabilità viene opportunamente svilita, le sue speranze smontate, le sue paure confermate.

Qualcuno ha scritto che quella carezza finale, ad indicare il perdono, potesse rappresentare un barlume di speranza, mentre io credo che sia invece l’emblema della rassegnazione, ancora più amara di tutto il resto, proprio nel suo essere affettiva.

Roberta Girau



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