Infanzia e pedofilia: una riflessione

Creato il 06 maggio 2014 da Thoth @thoth14

“(…) La retta via, che io ho conosciuto tardi dopo molte fatiche ed errori, cerco di mostrare agli altri.”

Seneca, dalle Epistulae Morales ad Lucilium, epistola 8

Pedofilia o paidea? Paidea o pedofilia? I due termini si compenetrano forse storicamente e giungono, nel nostro tempo, ad escludersi del tutto a vicenda. Paidea per i greci e i latini era un educare, un condurre il bambino, il fanciullo durante gli anni spensierati ma difficili e particolari dell’infanzia senza causare traumi alla psiche infantile ancora in formazione, ma soprattutto senza alcun contatto fisico fra l’adulto (il maestro o il pedagogo) e il bambino, appunto, a lui affidato e men che meno riguardante la sfera sessuale.

Pedofilia è un concetto e un termine più moderno, anche se, nell’antichità classica e nelle epoche successive della storia d’Europa, non implica quasi mai un senso di abnormità e di ambiguità fra l’adulto e il bambino contemplando, in molti casi, il contatto fisico e il sesso.

Nella società odierna la pedofilia viene considerata, e dalle leggi e dall’opinione pubblica e dalla mentalità corrente, un grave crimine contro il piccolo, che non capisce e non sa, non può capire e non può sapere ed è, perciò, indifeso.

L’infanzia, in fondo, è da sempre una specie di mito (un mito, in realtà, colmo di tenerezza e di dolcezza) il quale si fonda sulla concezione di uno stato iniziale di ordine spirituale e di purezza, da cui veniamo tutti sistematicamente separati con la crescita e l’educazione. Un allontanamento che procede fino a compiersi nell’età adulta, quando diventiamo capaci di gestire il nucleo centrale della nostra vera esistenza interiore.

Ecco perché la pedofilia è così duramente condannata e il pedofilo è quasi visto e percepito come un mostro, che attenta all’innocenza meravigliosa e ideale del bambino e talvolta la distrugge con i suoi atti di libidine o di vera e propria sessualità sulla piccola vittima per il solo piacere sadico – sessuale di farlo, per un gusto malevolo di perversione o perché vittima, egli stesso e a sua volta, di una coazione a ripetere di abusi del genere subiti nella propria lontana infanzia o anche perché malato di mente.

Non c’è, credo, un paese civile al mondo, oggi, che non condanni la pedofilia e chi la pratica.

Le leggi per punire chi si rende colpevole di tale crimine sembrano dure ovunque e di condanna senza appello. Perfino nelle carceri “il mostro pedofilo” viene trattato dagli stessi compagni di cella (spesso criminali pericolosi e incalliti) non più come un essere umano: evitato, aborrito, vessato; quando non viene rinchiuso addirittura in regime duro di isolamento.

Egli, allora, è ancora una persona? Ha ancora una dignità umana? Si deve avere pietà di lui o lo si deve, anche umanamente, condannare per sempre? Cosa resta più di lui come uomo? E cosa più di quel mondo paradisiaco di incanto, di fantasia e di innocente candore, tipico della nostra infanzia, predato, risucchiato, portato via con la forza?

Francesca  Rita  Rombolà


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