Onnipresente è il tema della fede. Alma, nel parlare difatti di “grida della fede e del dubbio nell’oscurità e nel silenzio” sembra rimandare a quei primissimi fotogrammi del Vangelo recitato nella chiesa scandalosamente vuota di Luci d’Inverno o al rifiuto del silenzio di Dio urlato nel segreto del macabro confessionale de Il Settimo Sigillo. L’incipit di Persona, invece, è una sequela di fotogrammi apparentemente privi di senso, percepibili dal sonno o dall’inconscio. La pellicola ha il pregio di mantenere un’intensità perpetua per l’intero girato, mentre si ravvisa una contaminazione dapprima a latere ma sempre più insistentemente morbosa che porterà l’io delle due donne a decomporsi. Il dissolversi l’una nell’altra avviene come nell’eterno risucchio tra luci ed ombre, così magistralmente reso da Bergman in questa pellicola, dove, lo scambio delle confessioni finali delle protagoniste in un rapporto intimista con la macchina da presa, diviene metafora realistica dello stesso cinema, in cui l’interlocutore della presunta dialogicità filmica, si insinua sempre fuori campo, al di qua dello schermo, agevolando l’unico continuum della propria stessa carne, così come nella fusione stessa del volto delle due donne.
Qui la dissolvenza è scambio sin dal principio e il dipanarsi successivo della sinossi disvela la schizofrenica commistione di Anna tra l’essere e il sembrare d’essere. Elizabeth, l’attrice di Persona, sceglie il silenzio così come sceglie di non amare il proprio bambino, arrivando, nell’intento registico, ad emulare il Dio muto di Bergman. L’assenza di certezze di contorno delle due donne incarna il naufragio del credo dell’autore e la promiscuità dei valori di cui è preda l’Io contemporaneo.