"(...) Agisci, svegliaci e richiamaci, accendi e rapisci, ardi, sii dolce. Amiamo, corriamo".
(Le Confessioni di Sant'Agostino, 8.4.9)
Mi piace pensare al finale di "To the wonder" come all'apice della dimensione estatica del cinema di Terrence Malick. Esistere significa vivere fuori di sé, continuare ad errare fino a fuoriuscire dal proprio corpo. La macchina da presa avanza tra gli alberi alla ricerca di ogni piccolo spiraglio di luce, tutta presa a catturare ogni singolo, eventuale, eccedente movimento della natura. Filmare significa esser catturati dal mondo, farsi sorprendere, cibarsi del sogno onnivoro, famelico, ipercinematografico di poter inscenare perfino il movimento dell'aria. Poi la macchina volteggia intorno al corpo di Marina, innescando con lei l'ennesima relazione d'amore. Distesa sulle spighe d'erba, lo sguardo della donna pare aperto all'altro, come visitato da una presenza sconosciuta, da un ricordo lontano che pensava ormai appassito. E bevendo gocce di rugiada finalmente crede e vede: alla meraviglia. Il suo volto s'illumina, Marina si volta radiosa, Mont Saint-Michel, e il sogno di un sogno che incendia lo sguardo. E inquieto il cinema di Malick - mai stato così ardente, così fragile, così umano - continua ad errare.