Ovvero se sia possibile il femminismo nelle università.
“…university bore-ocrats and other academented busybodies...”
M. Daly
J.C.Leyendecker
Lo Stato come istituzione politica, e per come è stato conosciuto fino a poco tempo fa, è in crisi. Questa crisi si ripercuote, inevitabilmente, anche su tutte quelle che sono le istituzioni statali, sue derivazioni. Tra queste, evidentemente, anche l’università. Dovremmo disperarci per questo? Per i tagli che affliggono questo mondo, il luogo deputato alla creazione e alla diffusione della ‘cultura’? Oppure dovremmo vedere in ciò un’occasione? E se sì, in che senso?
L’università non è un mondo a parte rispetto allo Stato. È una sua propaggine e funge da cassa di risonanza dell’ideologia statale, della cultura dello Stato, del suo ordinamento politico e sociale. Guardando alle università non si può non notare come essa, dello Stato, ne condivide logiche e limiti. Ne dipende economicamente e ne riflette ideologia e struttura. È stata perfettamente assorbita al suo interno. E non stiamo parlando soltanto della condivisione nella corruzione, nella cattiva gestione, nella disonestà e il nepotismo che ugualmente affliggono Stato e Università. Questa è solo una parte del discorso.
L’università è un’istituzione statale, quindi ‘patriarcale’. Quando diciamo ciò intendiamo che, come tutte le istituzioni dell’ordinamento Stato, essa condivide la logica della gerarchia, e il suo principio, ovvero l’autorità.
Pur essendo un’istituzione statale, l’università viene spesso vista come il luogo in cui si produce liberamente cultura, e questa a sua volta vista come ciò che si oppone al potere, che libera l’uomo, lo rende critico e perciò non sottomesso. Sembrerebbe esserci quindi un contrasto tra università come produttrice di cultura e università come istituzione statale. Le cose però non stanno così. Il contrasto non c’è, e anzi l’università, con la sua cultura, non fa altro che perpetrare l’ideologia statale, la sua struttura di potere, i suoi presupposti sociali. L’università non è il luogo dove venga ad esempio messa in discussione la conformazione dell’ordinamento sociale, le sue divisioni.
La ‘cultura’ nello Stato e il suo microcosmo sociale.
L’università non è un’istituzione liberamente aperta a tutti. Essa è una forma del privilegio, una struttura del dominio, dominio che non si esercita infatti solo attraverso il potere economico ma anche attraverso il potere di imporre linguaggi, concetti, strutture di interpretazione della realtà.
L’università è un microcosmo socialmente omogeneo, precluso ai più e per questo forma della discriminazione.
Chi insegna all’università, ovvero chi produce quella cultura che dovrebbe essere libera e opporsi al potere? Insegna all’università chi, innanzitutto, ha avuto la possibilità di frequentarla, ancor meglio facendo esperienze all’estero e vivendola in pieno.
Ciò produce fin da subito nello studente una chiusura rispetto al mondo ‘normale’. Questa chiusura ha degli effetti sociali e culturali importanti. Dice Bourdieu “gli effetti della chiusura scolastica, rafforzati da quelli dell’elezione scolastica e dalla coabitazione prolungata di un gruppo socialmente assai omogeneo, non possono non favorire una distanza intellettualocentrica nei confronti del mondo“ (p. 49). Chi insegna all’università è chi si è da tempo staccato dal mondo reale per vivere totalmente nel microcosmo protetto, socialmente omogeneo, dell’accademia. Nell’accademia il conflitto sociale, politico, di genere e razziale non entra, non se ne percepisce nemmeno l’esistenza. L’unico conflitto è quello per le cariche, per i posti da assegnare, conflitto interno e meramente gerarchico tra individui della stessa ‘classe’. La cultura insegnata dentro queste quattro mura è così autoreferenziale e implicata nelle logiche di quel potere che non si può fare di essa uno strumento di liberazione-
La ‘cultura della rivoluzione’ come contrappeso al potere.
Paradossalmente è proprio all’interno delle università che vengono insegnati e diffusi alcuni pensieri che si autodefiniscono rivoluzionari, e che pretendono di essere produttori di cambiamenti non solo nell’ordine del pensiero ma anche in quello della realtà. Personalmente non ho mai conosciuto un ambiente più ricco di persone che si autoproclamano comunisti, rivoluzionari, sovvertitori dell’ordine e del sistema. Si tratta forse di una contraddizione? L’essere completamente separati dal mondo sociale e farsi sostenitori del suo radicale sovvertimento? Al contrario, si tratta di due cose che stanno insieme perfettamente. Il cambiamento come utopia e la separazione dalla realtà. Il distacco, la chiusura scolastica “emerge in tutta la sua chiarezza, paradossalmente, nei tentativi, spesso patetici ed effimeri, di ricongiungersi al mondo reale, in particolare attraverso schieramenti politici che con il loro utopismo irresponsabile e il loro radicalismo irrealistico si rivelano essere un’ennesima maniera di denegare la realtà del mondo sociale” (p. 50). Affermare teorie irrealizzabili è l’esatta conseguenza della separazione dalla realtà. Se si vive nella realtà sociale non si possono affermare certe teorie, se ne comprende la limitatezza e l’inadeguatezza. Ancor meglio, se ne comprende l’irrealismo, il loro essere parole vuote completamente avulse dalla realtà.
Non solo sono il prodotto della separatezza ma costituiscono esse stesse la linfa del sistema a cui, a parole (!) si oppongono. Sono il suo contrappeso, ciò che lo mantiene in equilibrio. È come una bilancia, o l’altra faccia della medaglia. Si tratta di complementarità. Un simile sistema di potere non potrebbe reggere se al contempo non diffondesse l’utopia del cambiamento radicale, immediato e violento, con le sue idee che, costitutivamente, non possono che restare idee.
È possibile insegnare la rivoluzione?
È possibile farne una teoria da spiegare e studiare all’interno delle aule universitarie? O queste fungono piuttosto da attenuazione e normalizzazione di qualunque pensiero di cambiamento, pensiero svincolato all’azione?
Il cambiamento si produce attraverso le azioni, e la teoria si costruisce attraverso di esse e non può prescinderne. Collegata all’azione nel mondo reale, all’interno di essa, solo così la teoria produce cambiamenti. Essa affianca l’azione e la amplifica. Essa non esiste senza azione, pena il suo conglobamento in strutture di potere che la depotenziano, la rendono parte del sistema.
La prima parola del cambiamento è prassi. Solo dopo viene la teoria, teoria prodotto della prassi, teoria nella prassi. Occorre mettere in radicale discussione il “sogno di onnipotenza” del pensiero.
La potenza rivoluzionaria del femminismo ha trovato origine nel suo essere innanzitutto una prassi. Prassi che si sviluppava al di fuori delle istituzioni statali, fuori dai circuiti del potere istituzionale. Il suo sapere è prodotto di questa prassi. Come dimenticare le parole di Carla Lonzi quando, parlando del femminismo, sottolineava il suo essere una pratica e non un’idea? Lì stava qualcosa di davvero importante: il coinvolgimento di tutte e la possibilità reale del cambiamento. Il femminismo che ha cambiato le cose è anti-intellettualismo, si è posto contro le istituzioni della cultura dominante e ne ha create di nuove.
Nella crisi dello Stato e di tutte le sue istituzioni sta una grande opportunità, quella di produrre nuovi modi dello stare insieme, dell’agire insieme, e infine del pensare insieme. Si tratta di creare nuove istituzioni in cui le logiche non siano quelle della verticalità autoritaria e della separazione in microcosmi sociali gerarchicamente ordinati, ma quelle dell’orizzontalità, della cooperazione, e della partecipazione di tutte e tutti. Da lì, dall’interno del mondo sociale, solo dal rapporto stretto con la realtà che si vuole cambiare può nascere il cambiamento.
Frida Kahlo
“Non hai idea di quanto siano puttane queste persone. Mi fanno vomitare. Sono così maledettamente “intellettuali” e guasti che