Inside Out. Il film

Creato il 26 settembre 2015 da Nasreen @SognandoLeggend

CinemaMania

le pellicole che – dicono – stanno sbancando al botteghino

Inside Out

Titolo: “Inside Out”
Regia: Pete Docter
Sceneggiatura: Pete Docter
Genere: Film d’animazione
Durata: 94 minuti
Nelle sale italiane: 16 settembre 2015

Trama: La testa dell’undicenne Riley è popolata dalle sue cinque emozioni primarie: Gioia, Rabbia, Paura, Disgusto e Tristezza. Gioia è l’emozione dominante e pare avere perfettamente sotto controllo la vita della bambina, finché un giorno i suoi genitori decidono di trasferirsi, sconvolgendo completamente il suo mondo interiore.

 di Jacopo Giunchi

Ci vuole coraggio a criticare un film come Inside Out, che pare aver messo d’accordo tutti, sia in sala che sulle pagine delle riviste. Mi accollerò dunque io questo oneroso compito, in quanto ritengo che le roboanti celebrazioni dei miei colleghi siano viziate da una certa indulgenza verso questa tipologia di prodotto e da un plateale filopixarismo di fondo. Libero da simili preconcetti, ho analizzato con occhio critico la pellicola, riscontrando alcune storture su cui tutti sembrano tacere. Alcuni potrebbero trovare troppo severo il mio giudizio verso quello che infondo è un film per bambini; ma sono lontani i giorni in cui a questo genere era negato confrontarsi coi film “per adulti” e c’è ormai una lunga lista di opere che hanno vinto la scommessa di ambire a essere più che semplice intrattenimento per l’infanzia. Inside Out si pone forse come il progetto più ambizioso di tutti: intende mostrarci i meccanismi più intimi e profondi della psiche umana. Perciò non farò sconti e non sarò indulgente, come non lo sarebbe un buon allenatore verso un atleta che, nonostante la giovane età, si proponesse di gareggiare con i professionisti.

Un disegno ottocentesco ci mostra come l’idea non sia poi così fresca.

Demoliamo subito uno dei pregi più sbandierati sin dall’uscita dei primi trailer: la presunta originalità creativa. La prosopopea delle emozioni è vecchia quanto la scrittura e si trovano innumerevoli esempi in cui viene sfruttata l’idea degli omini nella testa. Senza scomodare il carro alato di Platone o il senato dei pensieri di Plauto, basterebbe pensare all’episodio, peraltro celeberrimo, di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere). Molto simile anche l’immaginario della serie di strisce a fumetti The Numskulls (sebbene in sala di comando ci fossero cervello e sensi, anziché emozioni), per non parlare del cartone Esplorando il corpo umano/Siamo fatti così, che ha accompagnato la nostra fanciullezza. Esiste anche una serie televisiva che ha approfondito le possibilità di questa trovata per ben tre stagioni: si tratta di Herman’s Head, dove la vita del protagonista era commentata da personificazioni di ansia, istinto, ragione e sensibilità. Un noto cortometraggio è talmente simile, anche graficamente, a Inside Out, che gli autori potrebbero quasi rivendicare il plagio; ma il colmo è che l’idea era stata già utilizzata dalla stessa Disney in un altro vecchio cortometraggio!

Nonostante ciò, anch’io ero esaltato dalla scelta di affrontare un tema così difficile e dalle enormi potenzialità di sviluppo; purtroppo la visione ha deluso le aspettative. Questo lungometraggio, seppur buono, non soddisfa pienamente né sul piano estetico, né su quello contenutisco. L’ho guardato anche una seconda volta cercando di valutarlo in prospettiva pedagogica, ma non convince nemmeno sotto questo punto di vista. Non critico il modello psicologico utilizzato o l’inevitabile riduzionismo concettuale che un film come questo comporta; quello che non funziona è il modo in cui questo impianto viene narrativizzato. Non a caso Gioia, durante il suo spiegone iniziale, glissa dicendo: “Non voglio andare troppo sul tecnico”. Certo, perché approfondendo ulteriormente, sarebbero emerse le incongruenze di questa prosopopea emozionale.

Nel mondo di Inside Out, abbiamo paura perché la Paura ha paura. Logico, no?

L’assunto di base di Inside Out è che le emozioni sono incarnate da degli omini colorati; questi pensano, parlano e agiscono come delle persone caratterizzate dall’emozione che rappresentano (quindi Rabbia è irascibile, Disgusto è critica ecc… ); al centro del quartier generale c’è una console di comando: a seconda dell’emozione che la controlla, Riley sarà gioiosa, triste, arrabbiata, disgustata o impaurita. In realtà, però, le emozioni non sono agenti attivi, ma delle reazioni a degli stimoli, come è ben illustrato nella sequenza introduttiva: Riley vede un pericolo e la Paura la protegge. Ciò dissolve completamente la funzione attanziale di questi omini colorati, che non hanno motivazioni, scopi, volontà propria: Paura interviene e viene lasciata fare perché è ovvio che la bambina debba avere paura; dunque, se è ovvio, a cosa serve l’esistenza di Paura? Se ci fosse stato un unico omino alla console di comando non sarebbe cambiato nulla.

Gioia, un leader carismatico.

A dare una parvenza di “processo decisionale” ci sono i bisticci dei personaggi per controllare i comportamenti della bambina. La dinamica mostrata in questi siparietti è quella del branco: c’è un esemplare dominante che deve continuamente affermare la propria autorità. Gioia fa un ottimo lavoro per mantenere il comando, distraendo gli altri con sofismi e falsa gentilezza, mentre di fatto li sta estromettendo dalle decisioni; insomma Gioia è un po’ l’equivalente emozionale di Renzi. Docter mette giustamente in evidenza che ogni individuo è caratterizzato da un particolare sentimento e che è possibile associare un ricordo o un esperienza a stati d’animo differenti, ma l’arrendevolezza delle emozioni subordinate nega alla radice lo sviluppo di qualsiasi problematica, oltre a stridere assai con il modo in cui, all’occasione, prendono inspiegabilmente il controllo. D’altronde, non è nemmeno realmente importante chi tiene in mano i comandi, perché, come spiegato sopra, le emozioni premono i pulsanti o lasciano spazio alle altre solo in base agli stimoli esterni e non in base alle dinamiche interne; per cui, in definitiva, questi folletti colorati non influiscono veramente sui comportamenti di Riley, ma fungono solo da commentatori della sua vita, che scorre su un teatro cartesiano.

SPOILER ALERT !!!!

Tristezza: ci fa stare male, ma le vogliamo bene lo stesso perché lo fa involontariamente.

Queste falle strutturali si manifestano in maniera lampante nell’episodio in cui la Tristezza prende il sopravvento. Riley non riesce più a mantenere il carattere gioioso che la contraddistingue, perché vive con disagio il trasloco. Ciò che accade nella sua testa è che la Tristezza, senza alcun motivo, si mette a pasticciare per il quartier generale e a intristire le memorie (rappresentate da palle colorate); Gioia, tentando di mettere le cose a posto, viene risucchiata insieme a Tristezza in un tubo e le due vengono spedite nella memoria a lungo termine. E questo è quanto. Gli sceneggiatori potevano sicuramente inventarsi qualcosa di meglio per questo passaggio, che non è un episodio marginale, ma il fulcro di tutta la storia. Non viene data alcuna spiegazione al comportamento di Tristezza, che pare essere posseduta da qualche misteriosa forza, non c’è un tentativo cosciente di prendere il comando, anzi, lei stessa si autocolpevolizza mentre compie quegli atti, contro la propria volontà.  Questo perché creare una situazione di conflitto con Gioia sarebbe stato poco carino, in un film dove sono tutti buoni e bravi: la poetica pixariana è sempre stata allergica ai manicheismi e la rimozione radicale di ogni antagonismo raggiunta con Inside Out rappresenta il trionfo del buonismo totalizzante.

Anche i risvolti psicologici di questo evento non sono ben chiari: cosa dovrebbe significare che la Gioia e la Tristezza finiscono nella memoria a lungo termine insieme ai ricordi base? Tutto ciò non fa che confondere ulteriormente sulla vera natura di queste entità, che, come avrete ormai capito, non sono esattamente ciò che dicono di essere. Un esempio significativo è il comportamento di Rabbia, che nel frattempo ha assunto la guida del quartier generale. Il suo piano è far scappare Riley per tornare ai lughi natali, ma proprio mentre lo sta portando a compimento, si ferma, assalito dai sensi di colpa. Purtroppo per lui, non è possibile tornare indietro, perché adesso un’altra misteriosa forza impedisce l’utilizzo della console a Rabbia, Disgusto e Paura, che invocano disperati aiuto: “Gioia saprebbe cosa fare!” Non ha alcun senso che un’emozione abbia dubbi o remore nel terminare un’azione espressa da quella stessa emozione, negando così la propria ragion d’essere. Evidentemente questi omini sono dotati di una coscienza  che trascende l’emozione rappresentata, in vista di un fine superiore (che è sempre la gioia, anche quando Gioia è assente). Lo dimostra anche il fatto che siano dotati a loro volta di emozioni, per cui vediamo Gioia provare tristezza, Rabbia provare gioia, Tristezza provare paura e via dicendo. Un altro aspetto singolare è la particolarità di Tristezza, che pare avere delle proprietà speciali rispetto ai sui colleghi: oltre a venire posseduta, è l’unica in grado di aggiustare la console e l’unica che può ricolorare le memorie. Ovviamente sono tutti espedienti per far funzionare meglio la trama, ma è propio questo il punto della questione: contrariamente a quanto si legge altrove, non c’è nessun indagine sull’anima, nessun significato profondo, è solo una favoletta in cui i personaggi hanno i nomi delle emozioni.

Non fatevi intimidire: basta fare l’aeroplanino per far sbollire la Rabbia.

Non fraintendetemi: Inside Out è un buon film. Si lascia guardare, ha un buon ritmo e si nota il gran lavoro  fatto sulle mimiche facciali. Pete Docter sa il fatto suo e riesce a creare momenti di pura poesia, dove può anche scapparci la lacrimuccia; però, per ottenere questo risultato, è disposto a qualsiasi bassezza, come utilizzare gli espedienti più facili e furbi del repertorio: note di carillon, piagnistei e il sacrificio di un personaggio. Commuovere così è molto comodo, sarebbe stato più coraggioso e interessante enfatizzare lo sgretolamento del sistema valoriale (il vero dramma della storia). Infatti, un elemento molto affascinante di Inside Out sono le “isole della personalità”, che corrispondono a credenze generate da ricordi particolarmente importanti. Purtroppo questi luoghi non vengono esplorati durante la pellicola, che preferisce farci fare una bella gita a Immaginationland e nel mondo dei sogni. Con le infinite possibilità creative che offriva l’ambientazione, si poteva certamente osare di più; sarebbe stato bello vedere una società complessa, pulsante, viva, invece viene proposta questa opprimente visione fordista della mente, dove tutti sono anonimi lavoratori con un preciso compito, dove tutto è scandito da un apatico e stanco tran tran quotidiano.

Forse però, il mio è un eccesso di scrupolo, forse Inside Out è solo un filmetto per bambini e non merita tanta acribia. Proviamo dunque a esaminarlo unicamente come intrattenimento per l’infanzia. Quindi togliamo ogni pretesa di rappresentare la complessità della mente, togliamo i rifererimenti al subconscio, al pensiero astratto e a Polanski, di cui ai bambini frega zero. Che cosa rimane? Dei personaggi monodimensionali che lavorano in una specie di fabbrica di palline di Puzzle Bubble, guardando un film per ammazzare il tempo, vengono risucchiati fuori e cominciano a vagare in un gigantesco McDonald per riportare dentro le palline; il tutto alternato alla storia sul passaggio all’adolescenza di una ragazzina presa male per un trasloco, di cui ai preadolescenti frega ancora meno di zero e probabilmente non riescono neppure a capire. Forse mi sbaglio, perché le elementari le ho passate da un pezzo, ma, ut Disney docet, i bambini al cinema vogliono divertirsi: vogliono mostri, principesse, combattimenti, canzoni. Inside Out non dà loro niente di tutto questo; quello che dà è una profonda, pervasiva, incontenibile, tristezza; il che va anche bene, come ci insegna il film stesso, ma non è certo il modo migliore per intrattenere i più piccini. Molto bella la catarsi finale, ma nessuno porta un bambino al cinema per farlo piangere!

Disgusto: ci impedisce di ingoiare indiscriminatamente tutto quello che ci propinano. È lei ad aver ispirato questa recensione.

 È stato anche sottolineato il valore pedagogico dell’opera: Inside Out, infatti, può essere visto come un tentativo di portare al cinema l’educazione emotiva, un importante materia purtroppo trascurata nelle scuole. Bene, bello! Vediamo cosa si può imparare dalla visione del film. Intanto, che abbiamo delle emozioni primarie (anche se, volendo essere precisi, gli psicologi ne individuano qualcuna in più). Poi, che non dobbiamo soffocare la tristezza, ma accettarla come una parte di noi.
Ma a cosa serve sapere queste cose sulle emozioni, se il cartone ci insegna innanzitutto che non abbiamo facoltà di controllarle? Se c’è una cosa con cui anche i sostenitori più entusiasti sono d’accordo, è che Riley ha un ruolo totalmente passivo. Non c’è una “Ragione” al di sopra delle emozioni, si amministrano da sole nei bizzarri modi descritti sopra. Quindi Inside Out non insegna come gestire i sentimenti. Allora, forse può insegnarci qualcosa sulle emozioni in sé stesse. A livello esplicito, afferma che la Paura ci protegge, la Tristezza esprime agli altri il nostro disagio, la Rabbia serve a non subire ingiustizie e il Disgusto ci impedisce di venire avvelenati, fisicamente… e socialmente. Quindi, dal momento che le emozioni sono tutte buone e utili, la Pixar giustifica la collera, incoraggia la depressione e legittima discriminazioni istintuali. A livello implicito, si possono individuare altri aspetti interessanti. Lettura e studio afferiscono alla dimensione della Tristezza, che ovviamente è bassa, grassa e malvestita, mentre Gioia è simpatica e graziosa, oltre che falsa, subdola e manipolatrice. Non si capisce invece perché Rabbia e Paura debbano essere le emozioni maschili della protagonista, quando sono possibili equipaggi di un unico sesso, come apprendiamo nei quartier generali dei genitori. Il padre è dominato dalla Rabbia, una persona adirata con la vita: la sua mente è una plancia di comando militare dove le emozioni guardano una partita di calcio, mentre lui sta cenando con la famiglia senza nemmeno riuscire a riconoscere le espressioni della sua stessa moglie. La madre d’altro canto è caratterizzata dalla Tristezza, un’insoddisfatta cronica, delusa dal matrimonio, che si consola segretamente con il ricordo di un flirt extraconiugale. Questi i modelli genitoriali proposti dal lungometraggio. Non essendo cosa di mia competenza, lascio giudicare a voi il valore educativo dell’opera.


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