De te, bellezza mia, me ‘nnammuraje,
si t’allicuorde, ‘nnanz’ a la funtana:
Ll’acqua, llà dinto, nun se secca maje,
e ferita d’ammore nun se sana…
Salvatore Di Giacomo
Adesso entra dalla porta con il suo profumo di dopobarba e mi alza la faccia con due dita, lo so, ma non mi dice niente, mi alza la faccia e mi guarda negli occhi per vedere se mi sono preso le gocce.
Non dice niente però i suoi occhi si fanno tutto un viaggio dentro ai miei, mi buttano il sole in faccia che io poi mi devo girare per forza, e jammo, bello, stammatina me si vvenuto a ceca’ proprio a mme?
Non risponde, si siede sopra alla sedia che sta sul balcone, fa solo quei rumori con la gola, quando si toglie le scarpe, lentamente, con una paura addosso, come se invece dei mocassini con la tomaia sfoderata di pelle nera si stesse togliendo i piedi, staccandoseli dal suo corpo di vecchio ‘nzallanuto che non tiene né cielo ‘a vere’ né terra ‘a cammena’.
Dentro alle scarpe i suoi piedi c’hanno due paia di calzini di lana attorno, sono gonfi, sembrano le zampe di un animale, un animale vecchio, centenario, morto di freddo.
Eppure stiamo ancora a principio di ottobre, ci sta ancora chi se ne va alla Gaiola a prendersi un poco di sole, Stefano, per esempio, che viene a lezione con la faccia appicciata e ci tiene sempre a dire che non si fa le lampade.
Dico io, a te te vene ‘nu modo sotto ‘a chella galleria, addo’ ‘o siente tutto ‘stu friddo? Lui fa così con la testa, come a dire che faccio sempre lo stesso discorso, che mica lo conosco il freddo tanto interessante e tanto oscuro della Galleria Umberto dove lui passa ogni suo pomeriggio, che mi sono fatto vecchio pure io, pure se tengo ventisei anni. Poi mi si avvicina un’altra volta, vuole che lo aiuti con la camicia: devo sfilargliela con pochi gesti, un braccio, poi l’altro, cercando di non stropicciarla, di non fare una piega.
Nessuno sa stirare a casa, né io né mio padre, e figuriamoci lui, che pure per prendersi un bicchiere d’acqua se ne butta la metà addosso e dopo si dà i morsi sulle mani.
Le sue camicie gliele stira la signora Cammarota che vive sotto a noi: è una ragazzina, c’ha un figlio di due anni, io le dico sempre grazie Giulia’, quello mio nonno soffre a tenere le cose piene di pieghe addosso, dice che già ‘e ttene isso ‘e ppieghe, che almeno la roba deve sembrare giovane, teseca teseca sopra al pigiama; lo sai che si mette sempre il pigiama sotto le camice?
Senti, bellino, ma tu non mi devi chiama’ Giuliana!, mi dice con quella faccia da mezascema, ripetendo la battuta imparata a memoria che servirebbe secondo lei a dare un contegno, un reale valore sociale al suo mantesino tutto sporco e inzevato di pappine e ‘nduciazza di suo figlio, io sono la signora Cam-ma-ro-ta, he capi’? Accussi he’a dicere!
Faccio attenzione a togliere la camicia a mio nonno, meglio cercare di mantenerla in condizione quando la rimette nell’armadio della sua stanza, e di non strizzarla quando la prendi dalla lavatrice.
Non strizzarla, ho detto, nun l’he ‘a ‘nzeccheni’!
Mio padre il lunedì fa mezza giornata nella salumeria, e una volta chiusi i battenti non ci pensa nemmeno a risposarsi un poco, si mette a cucinare il menù intero della settimana, prende, lava, taglia, cuoce, fa rosolare, fa bollire, condisce, chiude e mette dentro al freezer.
Noi dobbiamo solo scegliere cosa mangiare e riscaldare nel microonde le sere che lui non viene.
Mio padre a cinquant’anni non si toglie il vizio delle femmine, se ne va in giro, si prende a una, poi a un’altra, una che già tiene un marito, non lo so, un bordello, che lo dico a fare?
Lo dico per spiegare che almeno il lunedì pomeriggio si fa un poco di meaculpa, sente il dovere, con suo suocero e con suo figlio, di prendersi un poco cura di noi, di fare la femmina di casa.
Non ti allargare, mi dice, l’ho detto per dire, papà, e comunque la camicia stendila con le mollette accussì come l’hai tirata. Ma quella sta impurpata d’acqua, dice, c’essemo appicceca’ con quella ‘nzipetona ‘e cca bbascio?
Il nonno fa così con la testa come a dire nun dà aurienzo, è acqua.
Che hai detto? Che vvuo’ dicere? Parla! ‘A lengua ‘a tiene ancora, caccia ‘o ciato.
Nun da’retta, ja’, dico io, stasera non devi andare a prendere a nessuna?
Lui mi viene vicino con il suo odore di detersivo dei panni e mi alza la faccia con due dita, mi guarda dentro agli occhi per vedere se mi sono preso le gocce, come fa il nonno, ma lui non è comme ‘o viecchio, i suoi occhi stanno sempre per pisciarmi in faccia, mi fanno mettere una paura, e una vergogna di essere nato, di stare mo seduto sopra al divano con la voglia di vomitare per via delle gocce, in questa casa piena di foto di mia madre vestita da sposa e incinta di me; i suoi occhi me le fanno piangere una a una le gocce di cipralex che mi sono preso.
Lo difendi sempre, eh? Vi mettete contro di me. Vuie ve credite ch’è facile a vivere cu’ dduje muorti comme vuje?
Nun dà aurienzo, pa’, dico, sto un poco nervoso, stamattina sono andato a pagare la luce, con il ritardo, mi hanno fatto pagare la mora. Lui dice questi so’ problemi de’ tuoi. Hai ragione, dico io, perciò sto nervoso.
Il nonno finalmente ha finito di spogliarsi, anche se sotto stava già vestito, il pigiama se lo cambia ogni settimana, però profuma, ma veramente, io dico che il vecchio tene ‘e rrose ‘ncuollo, ma comme fai, no’?
Si accende la televisione, si mette gli occhiali per vedere da lontano, da dentro al letto, però gli occhi li tiene chiusi, sta pensando, sta sognando chissà che cosa, mica se ne fotte di tutte quelle ‘nzipiterie che dice Barbara D’Urso, no, ma che d’è, ‘o no’? Che stai facendo? A che pienze tu, vulesse sape’, a chi pienze?
Pure io lo guardo da lontano, il cipralex mi fa vedere le cose lontane pure quando non stanno llà ‘bbascio, se invece stanno lontano veramente io vedo che non esistono proprio, che stanno là perché uno, qualcuno se l’è scordate. Così è successo con il nonno allora, qualcuno si è scordato di lui.
Quando uno si scorda di te tu non esisti più, è overo, ‘o no’?
Proprio in questo momento, quando lo vedo e lo perdo dentro al letto della sua stanza, piccolo piccolo dietro agli occhiali, scomparso sotto alle lenzuola, è in questo momento che lo vorrei vedere morto, che lo ucciderei io con le mie mani dicendo che ‘a colpa è ‘a toja, viecchio ‘e mmerda, è sola toja perché se eri un altro non facevi tutto il casino che hai fatto, non ti sposavi mai, non facevi i figli per poi vederli morire con la leucemia, non iniziava questa famiglia schiattata in corpo, non mi rompevi il cazzo a me, ca jetto ‘o sango, perché sono come te, perché non è cambiato niente, pe’ccolpa toja, ca primma ‘e me fa’ nascere m’he ‘cciso.
Finisco di farmi questi pensieri in testa quando lo sento dormire.
È adesso che parla, solo nel sonno.
Mio padre non si rassegna al fatto che il vecchio non parla più, non dice più una parola, va e viene per farsi capire; è l’unico sforzo che fa, è vero, ma non si è accorto che quando dorme invece tene ‘na lengua ca fa paura.
Io entro nella stanza, spengo a Barbara D’Urso, e faccio piano piano, la voce di mio nonno che non è più abituata a parlare, parla addormentata, chiena ‘e suonno, a volte sento un nome, una richiesta di aiuto, faciteme ‘o biglietto, mettiteme ‘ngopp’o treno.
Ma che dici, che stai dicendo?
Forse parla di sua moglie, la donna che io non ho mai conosciuto, la macchia scura e indimenticata della mia famiglia, che aveva abbandonato lui e mia madre quando teneva cinque anni.
Ma no, no, quella lo aveva offeso, aveva detto che lui non era buono, dentro al quartiere l’avevano odiata tutti quanti, se n’era andata con un altro uomo, in un’altra città, aveva lasciato tutto, ci aveva lasciato il suo nome marchiato a sangue sulla faccia come un pugno, mio nonno era il marito di Margherita d’o calabrese, mia madre la figlia di Margherita d’o calabrese, io il nipote di Margherita d’o calabrese, che a quest’ora era probabile che avesse buttato pure il sangue, lei e quel chitemmuorto di calabrese, ma a noi ancora ci chiamavano così, così ci conoscevano, lo tenevamo ancora scritto in faccia.
E allora di chi parli, tu, a chi vuoi andare a cercare su questo treno, viecchio ‘e mmerda!
Ma faccio piano piano, non per sentire, no, ma per stare con lui, seduto sul letto, per fargli sentire la paura che sta in mezzo alla mia mano e la sua, quando voglio calmarlo, per fargli capire che le cose in mezzo a due mani si fanno piccole, se ne vanno lontane, che uno non le vede, che uno poi si dimentica.
Il vecchio respira l’aria della sua stanza come se si fosse svegliato dentro alla sua tomba, non la respira, se la zuca, agliotte forte, e sembra sempre che si sia addormentata pure quella, l’aria, l’aria chiena ‘e suonno va a sbattere contro le pareti della stanza, si abboffa dietro alle foto di mia madre attaccate con lo scotch, e le fa cadere a terra.
Pure qui ce ne sono cinque o sei, tutte del giorno del matrimonio: io e mia madre, io dentro al vestito bianco, dentro alla pancia bianca, senza peccato, lei con la faccia come se stesse per dire qualcosa, ma po’ c’o ddico a ffa’, mica parlano le fotografie?
Ti manca ‘o no, è overo? Sì, sì, pure a mme, gli dico mentre sta dormendo, forse gli voglio fare pena, a me mi piace fare pena a qualcuno, soprattutto al vecchio che invece nessuno se lo caga, nessuno sa quello che dice dentro al sonno, su quale treno vuole salire, da chi se ne vuole andare.
Io gli parlo come se volessi cambiare discorso, per non fargli fare quei pensieri, mentre dorme gli dico che pure a me mi manca assai mammà, e quando ho visto che Stefano teneva la faccia appicciata per tutti i pugni che gli hanno dato quegli animali che stavano a Piazza Bellini l’altra sera, mammà mi manca ancora di più, e allora io a Stefano non gliela prendo più la mano vicino al bar dell’università, no, sua sorella si sposa il mese prossimo, e gli chiede sempre se tra gli invitati lui verrà con la sua fidanzata. La fidanzata di Stefano è la nostra amica Ida, lei fa il corso di teatro all’Augusteo, dice sempre che gli piace fare questa cosa, maro’, ja’, non mi invitano a mangiare tuo padre e tua madre? È da una settimana che non parlo con Stefano, perché io volevo che mi picchiassero a me, e non a lui, perché io gli voglio fare pena a Stefano, he capito viecchio ‘e mmerda, a me non mi interessa che lui tiene a quella cessa che adesso vedrai, un altro po’ e se la fa pure veramente, io gli voglio fare pena, fosse pure tutta la vita, mi basta, hai capito? Io per questo mi prendo le gocce, perché io non so cosa fare con la mia vita a ventisei anni, e allora voglio fare pena a qualcuno.
Basta, non dico niente più, il vecchio mi stringe la mano, me la strozza, mi sta chiedendo scusa.
È da quando a mia madre se l’è ingoiata la leucemia in una cappella di Capodichino che succede tutto questo, da quando è venuta a mancare sua figlia ‘o nonno ha capito che non era più necessario mantenere la sua parte, il suo personaggio, la sua dignità di padre e marito.
Fino a quando ci stava sua figlia, la sua unica ragione di vita, il vecchio si sentiva in dovere di farsi vedere pronto a tutto, di dare a vedere che invecchiava senza problemi, che viveva per la felicità di sua figlia.
Fino a quando ci stava mia madre il vecchio trovava una giustificazione al suo dolore enorme che teneva nascosto dentro a quella cassetta di toscani 1492 anno domini, nell’armadio delle camicie, sotto, dove stanno pure quegli altri mocassini.
Io approfittai di quando stavano tutti all’ospedale, a vedere come mia madre si stancava di morire.
‘O viecchio fuma, ma’?, le avevo chiesto, ma no, quando mai, chillo era cantante, aveva detto la tosse delle quattro ossa di mia madre dentro al letto, se ne andava sotto al braccio di Sergio Bruni, alla galleria, ogni giorno, il pomeriggio, stava con gli artisti, lo chiamavano per le feste, dicevano ca teneva ‘na voce ‘e ‘nu cardillo.
Questo il vecchio non l’aveva mai raccontato. E io mi interessai di più a quella scatola di sigari che teneva nascosta, ossidata, con il sudore fattosi ferro delle mani che non devono farsi scoprire.
Il giorno del funerale mi presi tutta la bottiglina di cipralex, per la paura, per stare da solo.
Erano spariti tutti quanti, non solo mia madre, se n’erano andati lontano, che io non li vedevo. Allora mi misi ad aprire la cassetta dei sigari.
Ci stavano un sacco di lettere.
Un sacco di fotografie.
Non era bello, però si chiamava Giacinto, aveva il nome di un fiore, come Margherita, del resto, come la donna che aveva abbandonato il vecchio con mia madre, perché lui non era buono.
Su una foto ci stanno il nonno e Giacinto, vestiti con la divisa della fabbrica di budelli di collagene in cui lavoravano tutti e due. Il vecchio sta girato, lo guarda come se gli volesse dire una cosa, ma po’ mica si sentono le cose dette dentro alle fotografie?
Sul retro c’è scritto: Michele Langella e Giacinto Peano. Torino, 1952.
Tutto questo tempo nonno Michele s’è addurmuto, e io gli tengo la mano, la metto sotto alla mia, e penso che non è cambiato niente, penso che il sonno prima o poi mi dovrà venire pure a me.
Che pure io prima o poi farò un sogno di fiori, arrassusia.
Alessio Arena. Napoli, classe 1984. Scrittore e cantante, grazie a una segnalazione di Matteo B.Bianchi è invitato a partecipare alla seconda edizione di Esor-dire nell’ambito della manifestazione letteraria “Scrittorincittà” che si tiene a Cuneo nel 2007. Dopo questo primo banco di prova, collabora a varie antologie e a riviste italiane e spagnole, quali Linus, ‘Tina, Colla, Calle 20 e il portale di letteratura Nazione Indiana. È scelto da Mario Desiati per far parte dei sette narratori italiani nati negli anni ottanta nella sezione monografica del numero 41 di Nuovi Argomenti intitolato “Non ancora trentenni”. Nel 2008 è chiamato a partecipare alla seconda edizione di “RicercaBo” il laboratorio di nuove scritture organizzato da Nanni Balestrini e Renato Barilli. Il suo primo romanzo è L’infanzia delle cose (Manni, 2009), premio Giuseppe Giusti Opera Prima. Nel 2010 partecipa a Ultra-festival della letteratura in effetti, dove presenta il suo secondo romanzo Il mio cuore è un mandarino acerbo, incluso nella collana 9volt di Zona. Nello stesso anno torna di nuovo a Esor-dire, adesso come autore già edito e vince il premio del pubblico con il testo Le stelle, in fila indiana, poi si lavavano la faccia. Nel 2011 forma parte della scuderia di autori di On the road, collana di narrativa tascabile di SenzaPatria editore. Il titolo è La casa girata. Come cantante e autore partecipa a La versione dell’acqua (Meridiano Zero, 2009) messa in musica del romanzo di L.R Carrino, Acqua Storta, e scrive e interpreta L’uomo con la finestra in petto incluso nel cd “Canzoni” (Magma, 2009). Con Gianni Lamagna partecipa a due edizioni di Racconti e musiche per i giorni di Natale, concerto per voci e strumenti nei complessi monumentali della chiesa della Pietrasanta e dei Santi Filippo e Giacomo di Napoli.
Autorretrato de ciudad invisible, (diMusicaInMusica, 2011) il suo primo Ep in lingua spagnola.
Per il teatro ha interpretato Nemico di classe, in cartellone al Trianon di Napoli con regia di Karima Campanelli e musiche di Alfonso Martone e ha scritto: Marinella, Hielo, (in spagnolo) e Quattro mamme scelte a caso insieme a Palmese, Carrino, Virgilio, produzione del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, incluso nella programmazione del festival teatrale Settembre al borgo di Casertavecchia e in pubblicazione per Caracó Editore.
È attualmente impegnato nella promozione di Lacasavacía duo acustico che unisce tradizione musicale britannica iberica e italiana insieme a Giancarlo Arena, e alla ricerca in campo letterario presso L’Universitat de Barcelona.
A cura di Sara Gamberini e Giovanni Ragonesi
giovanniragonesi@sulromanzo.it
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