Tempo fa, in mezzo al “rumore di fondo” (ossia la moltitudine di inutili cavolate che appaiono nei social network), lessi una riflessione legata ai trent’anni. Questa si concentrava nel descrivere i vent’anni come una decade in cui compiere errori da non ripetere in futuro, in grado di formare carattere e personalità di una persona. Poi continuava prendendo distanza dai quarant’anni, ma le motivazioni in questo caso erano molto meno fantasiose (per lo più riguardavano la salute fisica, ed in questo senso ho amici quarantenni che avrebbero qualcosa da ridire a proposito di fasi calanti). Lo scritto terminava con l’elogio ai trent’anni, descrivendola come l’età in cui il carattere è ben formato, la salute molto buona, ma la cosa più importante consisteva nella totale mancanza di paura nei confronti della vita è del quotidiano. Essendo nato nel 1981, se rifletto su quanto letto, dovrei essere felicissimo dato che sto vivendo in piena coscienza gli anni migliori di sempre. Io non ho tempo di guardare la mia vita da fuori come uno spettatore impassibile, ma preferisco godermi ogni attimo, improvvisare il successivo e non curarmi troppo del rispetto delle “regole” appresi nel decennio precedente (quello degli sbagli). L’altra sera sono andato a vedere “Interstellar” e più che accendere nella mia mente la voglia di comprendere e anazlizzare le teorie fisiche presenti nel tessuto della trama, ha risvegliato il desiderio di ripercorrere anni di visioni al cinema, in modo chiarire a me stesso cosa intendo con il termine blockbuster e quindi capire l’approccio con cui analizzare l’ultima fatica di Nolan. E siccome mi trovo ad avere l’età in cui la paura è completamente assente dal mio animo, eccovi questo pachidermico scritto, che parla sostanzialmente del mio rapporto con il genere, per poter così parlare di “Interstellar” a briglia sciolte noncurante delle conseguenze. Incominciamo.
Se negli anni una cosa è rimasta impressa nella mia memoria è sicuramente la prima volta che andai al cinema. Avevo cinque anni, era il 1986. La sala parrocchiale del paese dove vivo tutt’ora, non era molto grande e nemmeno poteva fregiarsi di avere uno spropositato numero di posti a sedere. In quegli anni non c’erano biglietterie elettroniche ne sedie numerate, vigevano le regole del “chi prima arriva meglio alloggia” e “invece del resto ti diamo un pacchetto di caramelle”. Era un sabato pomeriggio d’autunno, pioveva a dirotto mentre dopo avermi dato quel biglietto rosa e nero, mio padre mi faceva varcare per la prima volta la soglia di un mondo fatto di immagini e suoni. Ancora oggi è nitidissimo il manifesto di “Ritorno al futuro” incollato con lo scotch avana al vetro della porta d’ingresso, di quello scuro locale che sporgeva come un corpo estraneo dal retro della chiesa. Questa premessa è doverosa, lunga, ma importante perché se da un lato Christopher Nolan si prende quasi tre ore per raccontarci la sua versione del viaggio oltre lo spazio ed il tempo, io mi prendo la briga di consumare caratteri su caratteri per descrivere il mio punto di visione nei confronti di una tipologia di cinema.
Il mio imprinting cinematografico è quindi avvenuto con un Signor blockbuster (e non sono per nulla infelice di ciò e sfido chiunque a dire il contrario riguardo la caratura della pellicola di Zemeckis). Negli anni successivi ne ho visti di ogni tipo (probabilmente se avessi visto un documentario a quest’ora avrei un blog inerente le produzioni del National Geographic). Sono cresciuto sia con film basati su storie create per il cinema, che ispirate a romanzi, ma tutti erano accomunati dalla voglia irrefrenabile di stimolare la fantasia, di spostare la soglia del credibile oltre i limiti conosciuti, la sospensione della credulità e la qualità narrativa erano alla base delle vecchie produzioni, come accade anche oggi, ma non sempre queste due cose sembrano essere ancora un requisito necessario quando si parla di semplice intrattenimento.
Cresciuto trasportato dall’immaginazione in mondi di ogni tipo, ho incontrato i primi extra terresti che non volevano conquistare il pianeta (E.T.), nuovi mondi da scoprire partendo da una cantina (Explorer), Guerre Stellari, Giochi Stellari, mappe del tesoro nascoste in una soffitta (I Goonies) e l’elenco potrebbe continuare raggiungendo una lunghezza imbrazzante. Nel mio cammino cinematografico ho trovato sulla mia strada eroi di ogni tipo. Dai teen ager che viaggiavano nel tempo ai piloti di aviazione che volavano oltre il muro del suono sulle note di Kenny Loggins, acchiappafantasmi, uomini travestiti da pipistrello e uomini in grado di volare con un mantello.
Da quella giornata piovosa del 1986 ad oggi ho visto eroi americani combattere russi, fino al giorno in cui questi ultimi non erano più nemici ma alleati preziosi per combattere qualcosa di diverso, magari un nemico venuto dallo spazio (Indipendence day, La guerra dei mondi) o la natura stessa che per salvare il pianeta tenta di distruggere il parassita uomo che sta distruggendo l’ecosistema (The day after tomorrow). I miei occhi di cinefilo pigro hanno viaggiato dentro le mura di Alcatraz assieme a Sean Connery (The Rock) e sono andati in pattuglia con decine di poliziotti, da quelli di colore che sfrecciano con una Porsche per le strade di Miami (Bad Boys) fino a quelli intrappolati in un grattacielo a Natale (Die Hard), senza dimenticarci di quei personaggi che senza una precisa identità ma capaci di compiere missioni impossibili.
Durante questi anni il cinema è cambiato e con esso i blockbuster, che se nel DNA rimangono pellicole d’intrattenimento capaci di portare una moltitudine di gente in una sala cinematografica, ora devono fare i conti con tutto il materiale promozionale ad essi collegato (il film non basta più). Gli anni duemila hanno mutato il genere in un modo inaspettato, perché se da un lato hanno definitivamente consacrato le pellicole tratte dai fumetti, allo stesso tempo hanno spostato il punto di partenza per costruire una produzione di grandi dimensioni (a parte eccezzioni a questa regola come per l’appunto “Interstellar”). Perchè dal primo “Transformers” in poi non possiamo più riferirci al blockbuster come cinema giocattolo, in quanto è il giocattolo stesso la materia fondante dell’immagine, da cui essa dipende per essere generata. Lo spettatore non è più solamente la persona che va al cinema, ma un cosumatore che deve arrivare al cinema attraverso qualsiasi mezzo e magari uscire a proiezione utimata con idee chiare su dove spendere soldi in boiate quali megliette, pupazzi eccetera.
Nel 2014 il blockbuster è cambiato e gli spettatori spettatori con esso, il cinema è definitivamente il punto d’arrivo attraverso cui “indottrinare” lo sguardo e piegarlo al consumo collaterale. La rivoluzione lenta e inesorabile della produzione in serie di film dai personaggi fideilizzati, ha quasi completamente annientato la possibilità di sovvertire l’epilogo del racconto, perchè esso non lo possiede più in quanto costantemente demandato al capitolo successivo, sdoganato dopo le stime sugli incassi del primo fine settimana di programmazione. Il cinema oggi non offre più un prodotto “intero” ma il suo linguaggio e la comprensione che da esso deve derivarne, è proporzionale ai media altri ad esso subordinati quali, libri, fumetti, prequel animati e chi ne ha più ne metta. L’unica certezza rimasta è il punto d’arrivo dello sguardo, che per ora è ancora lo schermo bianco che si tinge di colori una volta che le luci si sono abbassate (fino al giorno in cui l’on-demand e lo streaming a pagamento non abbatterà definitivamente la visione in sala). Ed eccoci a guardare film in cui tutto e funzionale ad uno scopo sia interno che esterno ad esso, a prova di censura dove addirittura l’azione viene suggerita per non incombere nella possibilità che una parte di pubblico potenziale si ritrovi spiazzato di fronte alla vista di un po’ di sangue o di qualche turpiloquio verbale (The Winter Soldier in questo senso è un vero e proprio atentato perpretato liberamente in fase di montaggio). I vari Rambo, Martin Riggs e Douglas Quaid sembrano dinosauri e qaundo si decide di annullarne il ricordo attraverso un rifacimento, le loro nuove vesti diventano automaticamente conformi alla compostezza formale del politicamente corretto ad ogni costo (vedasi il remake di “Total Recall”). Ditemi quando avete visto l’ultimo blockbuster vietato ai minori di 14 anni, fate mente locale, cercate una risposta. Non sarà facile, è passato troppo tempo ormai.
In mezzo a tutto questo alcuni registi hanno ancora il potere, grazie agli incassi e all’altissima qualità stilistica, di piegare la macchina produttiva ai loro voleri, ed ecco che sotto questa luce arriva “Interstellar“, pellicola nata per il cinema (cercando un parallelo penso alla nascita naturale di superman ne “L’uomo d’acciaio” snyderiano contrapposto alla genia controllata del pianeta Krypton). Finalmente una pellicola che riporta al centro del corpo lo sguardo per trasportarlo al di là di dei limiti dell’immagine. L’ultima fatica di Nolan vuole riempire i nostri occhi di cose incredibili per farci uscire di bocca esclamazioni di stupore, proprio come riusciva a fare “Jurassic Park” anni fà. Peccato che a tale ambizione non corrisponda una riuscita completa del tutto, o forse il risultato non arriva dove volevano le aspettative di chi scrive.
“Insterstellar” è ambientato in un futuro distopico, la terrà sta cambiando a discapito degli esseri viventi che la popolano, la crisi non è più economica ma alimentare. L’unica speranza di sopravvivenza viene affidata all’equipaggio di una nave spaziale, l’Endurance, che dovrà attraversare un buco nero alla ricerca di un altro pianeta abitabile evitando l’estinzione della razza umana. Il film segue le imprese degli astronauti per tutta la sua mastodontica durata (quasi tre ore), centralizzando le sue attenzioni sul personaggio del pilota Cooper (un incredibile Matthew McConaughey). Ex ingegnere, ora contadino, egli prende parte all’impresa per poter dare un futuro ai figli, un domani che possa almeno essere vissuto da loro in piena libertà e non comandato da scelte arbitrarie dettate da un sistema sociale che antepone la sopravvivenza a scapito delle capacità personali. “Interstellar” è una storia di padri e figli, di viaggi nello spazio, dell’immenso vuoto che crea l’ignoto, riflette sulla disperata incapacità dell’uomo di rimanere razionale di fronte al pericolo, ed al modo con cui tutto passa in secondo piano a favore della propria percezione degli eventi.
La pellicola oltre ad essere blockbuster “intelligente” (ho sempre trovata stupida l’affermazione di “cinema per spegnere il cervello”, dato che anche nella più banale delle pellicole la traduzione delle connessioni logiche avviene in modo inconscio, di conseguenza non mi piace l’uso appena fatto dell’aggettivo intelligente), un film tecnicamente coerente (anche se ammetto che in questo caso non ho digerito le scelte fotografiche e nemmeno quelle di desing), con un linguaggio cinematografico tutt’altro che scontato (il fuoricampo con cui veniamo introdotti alla partenza dell’Endurance è una delle migliori sequenze che vedrete questa stagione), ma allo stesso tempo è una pellicola che cerca l’indulgenza dello spettatore rispetto al racconto e questo affossa quello che poteva essere, quello che suggerisce fin dal principio, ossia il film di fantascienza perfetto per riunire diverse generazioni di spettatori (quelli per cui il cinema è partenza con coloro per cui è arrivo). “Interstellar” paga un pegno molto pesante alla banca dell’intrattenimento, sacrificando parte della storia per ricreare momenti spettacolari dal sapore conosciuto che cozzano con la natura intima del racconto alla base di tutto.
Così dopo un inizio incalzante, Nolan piega su se stessa la pellicola, tentando da un lato di continuare il racconto di due padri (Cooper e il professor Brand, questo un Michael Caine sempre eccezionale nelle sue interpretazioni), che con mezzi diametralmente opposti vogliono comunque salvare il futuro dei figli, contrpponendogli momenti di raccordo pieni di cliché tipici delle pellicole di fantascenza e d’intrattenimento (ci viene risparmiata “solo” l’ennesima versione di robot cattivo che mette i bastoni tra le ruote ai personaggi). Il risultato è un film che collassa sotto il peso di una continua ricerca di accomodamento, necessaria per accontentare gran parte del pubblico, ma che rende quasi irritante ed insostenibile chi riesce a percepire la storia annidata sotto la superfice, che si esprime apertamente solo nella prima parte della pellicola (che la ritengo potentissima). Durante la visione, la percezione è che Nolan sprechi un sacco di energie/durata per accontentare qualsiasi tipo di sgurado sia dall’altra parte dello schermo, ed ecco che quindi propone un prodotto dalla natura troppo ambivalente, costantemente indeciso se spostare l’asticella dal lato del cuore/autorialità o dei freddi numeri. Consciò di questo durante il corso degli eventi il regista “si scusa” più volte per questa sorta di film matrioska, ma questo non basta perchè la scelta migliore era decidere fin dal principio se creare un film intimo a tutti gli effetti, dedicato ad un pubblico minore ma in grado di apprezare quella gemma grezza che rimane sempre sullo sfondo, oppure dirigere un una pellicola decisamente più semplice dove il rumore in primo piano diventasse spettacolo di alto livello.
Spogliato da tutta la patina scientifica, dalle teorie dello spazio tempo, eliminando i quanti e il pretesto apocalittico alla base, “Interstellar” è il racconto di come l’amore faccia compiere gesta eccezionali, come nel caso di Cooper, o scelte sofferte, nel caso del vecchio professor Brand, ed è un racconto che per funzionare ha bisogno di cuore, in cui quest’ultimo deve esplodere nello spazio dello schermo, deve arrivare a far dimenticare le teorie fisiche, ma Nolan non è ancora il regista del sentimento, ed “Interstellar” è l’ennesimo film in cui durante lo scorrere dei titoli di coda, fa dibattere sui perchè e sulla veridicità delle teorie, l’improbabilità di alcune situazioni, ma mai si parla della storia appena vista, dei temi trattati e persi nella gigantesca confezione concepità (quasi come un foglio di carta che cancella la scrittura subito dopo averla memorizzata). Ma forse questa lunga riflessione è giusta ora, in questo momento odio quanto visto e allo stesso tempo lo amo per ciò che esso rappresenta nel panorama cinematografico odierno. Forse se in quel lontano pomeriggio del 1986 non avessi visto “Ritorno al futuro”, oggi avrei amato incondizionatamente “Interstellar”. Forse avevano ragione i gemelli Lutece con il loro: “Ciò che fatto è fatto. Ciò che è fatto sarà fatto”, frase che riassume perfettamente il mistero di “Insterstellar”. Oppure semplicemente l’ultima pellicola di Nolan è solamente un film e come tale andrebbe visto, dimenticando l’elezione a pietra messianica del cinema moderno. Forse ho già voglia di rivederlo. Probabilmente non lo farò mai. Fine.