Conoscendolo di persona gli si riconoscono una saggezza e una serietà che vanno ben oltre il dato anagrafico del suo anno di nascita (1987). Si occupa di poesia perché «non potrebbe fare altrimenti», perché, a differenza della maggior parte dei sedicenti poeti contemporanei, ha qualcosa da dire. E non si tratta di dissertazioni sui moti del suo pensiero o su involute metafore autoreferenziali: si tratta di concetti, di contenuti. La sua poesia è pregnante, è un mezzo e non un fine. L’interesse di Benny per il verso non è limitato all’atto di una scrittura frettolosa e tesa alla pubblicazione immediata: è compenetrato alla sua vita, è costante curiosità verso gli scrittori, è continua ricerca del confronto, propensione alla scoperta di altre voci letterarie che possano nutrire la sua pagina.
Cosa pensi della poesia in Italia oggi, in senso assoluto e in confronto a quella di altre nazioni?
Dare un’espressione contemporanea alla poesia italiana non è facile, più che mai in una breve risposta scaturita da un’enorme domanda, come propone l’assunto del termine ‘assoluto’. Proverò, esprimendomi in concisi esempi e piccole tesi e sensazioni.
La prima cosa da dire è che la poesia italiana è settoriale e non unitaria. Cioè si suddivide in base all’anagrafe dell’autore: al luogo di nascita, al dialetto che parla, al sangue che circola nelle sue vene. Il poeta è regionale. Il poeta non è nazionale. È questo è molto facile da notare. Lo si vede da molte associazioni o case editrici che pubblicano poeti in collane definite per regioni o in base alla loro età biologica. Questo vale anche per i Festival e i Concorsi Letterari. Per esempio, esistono Festival Internazionali di Poesia, ma non Festival Nazionali (parlo di manifestazioni riconosciute e di ‘alto prestigio’ come può esserlo quello di Genova, per esempio). Nei Concorsi Letterari, oltre la corruzione e la speculazione e la falsità che vige in questi sistemi, raramente se il concorso è svolto al Sud (o al Nord) i vincitori saranno di altre ‘terre’; molto spesso sono dello stesso paese nel quale si svolge il concorso. Questo è facilmente verificabile: basta rivedere la cronologia dei Premi e i vari vincitori che sono stati premiati.
Quindi la poesia non è unitaria. Non si concentra su un’identità specifica. Si dilata e si perde in mille espressioni che, troppo spesso, non sono e non diventano poesia.
Internet offre una visione ampia di questo difetto. I poeti, e che si riconoscono Poeti, vanno dalla casalinga al bigliettaio dei bus. Li ritroviamo tutti con una pubblicazione alla mano o che raccolgono applausi su palchi di centinaia e centinaia di eventi sparsi un po’ ovunque, che non offrono nulla oltre a sostenere un percorso grottesco di povertà filosofica e poetica che ormai vacilla tra ipocrisia e noia.
Viaggiando e toccando molte situazioni mi è capitato di sentire: «Salve, io sono una casalinga e quando non ho nulla da fare mi piace scrivere poesie» (e il pubblico applaude). Oppure capita di andare a ritirare un premio e sentire uno della giuria affermare: «Io conosco poco la poesia, però ringrazio per avermi invitato» (e il pubblico applaude). Oppure di tenere delle lezioni o di frequentare dei reading, in cui i diversi poeti che si alternavano sul palco, dopo, in privato, ammettevano di non aver letto quasi mai poesia, assicurandomi (o rassicurandomi?): «Che ascoltano De André».
Il problema principale oggi, in Italia, è che i poeti non sanno cosa sia la poesia. Non concepiscono l’idea che la poesia è arte come il romanzo o il teatro (e che va quindi coltivata e studiata) e non un stato d’animo momentaneo o una canzone da hit parade o un aforisma folgorante da Oscar Wilde.
Potremmo dare la colpa alla scuola. Possiamo dare colpa alle istituzioni e al sistema globale che ci circonda e ci annienta con la sua tecnologia. Ma sarebbe una grossa bugia.
Il problema principale è non avere un passato recente che guidi.
Il problema è avere un sistema letterario basato sul mercato e non sul valore della parola.
Il problema sono quei poeti, ormai casta, che barbaramente rifiutano il nuovo e vivono ancora nel sonetto o nel ripudio della sperimentazione linguistica e delle tematiche civili.
Il problema è il non avere una direzione, di giudici che sappiano ammettere le cagate che ci sporcano e ci rendono niente e vuoti come il cielo d’estate (oggi, tutte le recensioni – che sono quasi tutte dettate dai soldi – riconoscono qualunque libro come «unico, una perla della letteratura mondiale». Mai nulla è un obbrobrio da bruciare e relegare al moto del mare).
Il problema è di non riconoscere la gioventù, o almeno quella gioventù che può valere e che tenta di farsi valere; senza tanta tv; con troppa ansia leopardiana.
Il problema è il parlare di noi stessi, con versi che parlano unicamente di noi stessi. Senza dare nulla all’oggi. Senza amore.
Il problema è di non studiare poesia. Di pensare che tutto ciò che ci frulla per la testa lo sia e che ci sia dovuta.
Lo ripeto: il problema oggi non è la poesia, lo sono i poeti. Per meglio dire con una frase che uso spesso: ‘La poesia ci salverà. Sono i poeti che ci stanno uccidendo’.
Non c’è confronto con le altre nazioni. Io leggo molto e troppo, e di problemi ce ne sono ovunque, ma ovunque c’è sperimentazione e musicalità e poeti attivi e che credono in quel loro vocio. Qui si pensa solo a pubblicare libri e non a quello che dentro a questi libri il lettore può ricevere. Qui nessuno pensa al futuro, a offrire un sentimento. A parlare, come diceva Majakovskij, a piena voce.
(Perdonate il poco e il modo ciceroniano – come sempre – delle mie risposte.)
A cosa serve scrivere poesia?
A vivere e dar vita. Almeno questo vale per me.
Come puoi descrivere la tua esperienza con la casa editrice Montag [con cui Benny ha pubblicato Nelle trasparenze caotiche di nuvola perpetua]?
Diciamo che non c’è stata alcuna esperienza con questa mia prima casa editrice. Ha fatto quello che fanno la maggior parte delle case editrici odierne: stampano il tuo libro, senza editing, senza pubblicità alcuna (anche se da contratto sono previsti: sia l’editing che la pubblicità), ti inviano le tue copie e amen. Nulla di più o di meno.
Il contratto che ho accettato con questa casa editrice è stato molto valido dal piano monetario. Non sono andato in perdita io e non lo sono andati neppure loro. In più, la percentuale di guadagno, per quanto sia irrisoria e umiliante, è molto più alta di quella che offrono altre case editrici, anche di elevato prestigio.
Se posso permettermi, vivendo e studiando molto il lavoro delle case editrici, vorrei dare dei consigli a chi si cimenta per la prima volta in questo settore.
1. Evitate case editrici che chiedono soldi per il vostro lavoro. Oggi esistono molti siti che offrono un servizio di impaginazione e stampa molto validi. Non pensiate che la casa editrice offra un servizio migliore. Compie l’identico lavoro: impagina e stampa.
2. Imparate a far leggere il vostro manoscritto a diverse case editrici e non soffermatevi sulla prima che vi chiede la pubblicazione. Diffidate principalmente di quelle che dopo una settimana rispondono con entusiasmo e lodi. Di sicuro non l’hanno neppure sfogliato.
3. Leggete bene i contratti prima di firmarli. Fate attenzione ai diritti d’autore, alle copie che di base devono esser stampate, al lavoro di editing e grafica. Fate attenzione a ogni piccola cosa.
4. Non fatevi mettere sotto da parole dolci o complimenti frivoli. Non corrompete il vostro lavoro, sia sudato che cagato in un giorno. È la vostra opera e non la loro. (Comunque, questo dipende anche dalle conoscenze, quindi dalla fiducia nell’interlocutore).
In più vorrei dire una cosa alle signore e signori delle case editrici.
Inutile prenderci per il culo. Inutile soggiogare le persone deboli. Sembra una faida. La speculazione nel campo della letteratura non serve. Io so che, nel sistema deviato e corrotto nel quale viviamo, la poesia (comunque, la letteratura in generale) sta soffrendo molto. Ma questa non è una scusa per rubare. Io accetto che le piccole e medie case editrici chiedano un contributo per portare avanti un progetto, cioè il Libro. Ma il contributo non può essere la quota piena del prezzo di copertina. No. Il contributo deve essere di pari dimensioni. Cioè quello tipografico. Quello che la casa editrice paga di stampa; che siano 50 centesimi come 2 euro. Inoltre, un libro pubblicato non è solo un mazzo di fogli che viene gettato negli scaffali di qualche libreria, ma è un lavoro che va cresciuto e sostenuto. Soprattutto nel campo poetico. E va aiutato il poeta che crede in voi e crede nel suo lavoro e che si sforza di non sentirsi come quelle sue poesie: solo e spaesato come Adamo al suo primo risveglio. Scuole, manifestazioni, associazioni, eventi culturali (e non culinari). C’è molto spazio per poter creare. C’è un tempo per ridare luce a un campo, quello della poesia, che qui Italia ormai non esiste. E il resto del mondo lo sa.
Sei impegnato in presentazioni ed eventi letterari in giro per l’Italia, di cosa si tratta?
La tua domanda ha la risposta nelle due parole: presentazioni ed eventi letterari. Nella prima mi propongo, propongo la mia poesia e i miei esercizi letterari; nella seconda faccio reading o tengo ‘lezioni’ di scrittura e poesia o performance poetiche. È anche un modo per conoscere e condividere la propria visione, per stare in contatto col mondo e la gente. È un modo per ridare senso alla Parola, schiacciata da una tv mancante di linguaggio e serietà.
Spiegaci lo pseudonimo ‘Nonasky’.
Per diversi anni ho lavorato in una associazione di volontariato, nel mio paese natio, con servizio di primo soccorso, con ambulanza, con servizio per dialisi e per disabili. Ho avuto le tristi occasioni di venire a contatto col sangue altrui, per vari incidenti; sia automobilistici che domestici. E il sangue altrui ‘puzza’ e, anche strofinandoti fino a corrodere la pelle, rimare impregnato nel naso per diversi giorni. Allora ho pensato a tutte quelle persone, in Palestina, in Afghanistan, in Iraq, ovunque, che vengono continuamente e giornalmente a contatto col sangue altrui e ho pensato che la vista è già troppo, quindi sarebbe meglio non averlo, il naso. NO – NASKY, dal dialetto calabrese ‘i naschi’, le narici. Il ‘KY’ dedicato ai poeti rivoluzionari russi.
[Nei prossimi mesi verrà pubblicato su Temperamente il racconto con cui Benny Nonasky ha partecipato a Scritture Giovani cantiere del Festivaletteratura di Mantova 2011 e che gli è valso la selezione fra i dieci vincitori].