Intervista a Bruno Coppola

Creato il 30 novembre 2010 da Fabry2010

di Giovanni Agnoloni


Bruno Coppola, Professore di Filosofia di origini napoletane, ora vive a Firenze. Ho avuto occasione di conoscerlo a un seminario organizzato dal Gabinetto Vieusseux sul tema della letteratura gialla nel mondo. Da qui mi è venuto lo spunto per leggere il suo ultimo romanzo, pubblicato da Rizzoli: Clotilde e l’estate dei delitti, che segue ai precedenti Clotilde e la donna senza nome, Clotilde sulle tracce del minotauro, Clotilde e il segreto di San Rocco, Clotilde e la maledizione degli Altamura, Clotilde e il passato non passato, editi da Le Lettere.
Con questo autore ho scoperto una dimensione del giallo che non è né quella (oggi fin troppo ripetuta) del noir, né quella classica, a incastri logici perfino ossessivi, che discende da Agatha Christie, Arthur Conan Doyle e altri ‘mostri sacri’ del genere. Direi che il suo è un giallo della quotidianità, che ha per paradigma la sua protagonista centrale, una studentessa di filosofia ventenne, Clotilde: nell’ultima sua avventura vediamo alle prese con una scia di delitti che si consuma sulla riviera Adriatica, dove ha finalmente potuto incontrare un nonno che non aveva mai conosciuto, un fine antropologo americano di origini montenegrine.

- Clotilde e il suo mondo rimandano a una sfera di percezioni semplici, che somigliano ai ricordi una gioventù tranquilla, senza eccessive scosse. È un’impressione esatta? È a questo pozzo di memoria che ha attinto, per scrivere le sue storie?

L’impressione è esatta: se Clotilde piace ai lettori è proprio perché è una giovane, semplice donna, il cui retroterra familiare è sereno, pieno di affetti e rispetto; capita che si trovi scaraventata, dalle circostanze della vita, in situazioni stranianti e talvolta decisamente drammatiche, a cui reagisce con la sua carica di umanità, coraggio e amore per la verità, costi quel che costi.
Il romanzo cui facciamo riferimento (Clotilde e l’estate dei delitti) è quasi del tutto mancante dell’altro personaggio caratteristico dei miei romanzi: Napoli, perciò è una specie di ‘prequel’, serve soprattutto a presentare l’eroina nella sua identità peculiare, “prima” di metterla “in situazione”, nella sua povera, terribile città.

- Perché una protagonista femminile e giovane, in un genere (il romanzo d’investigazione) le cui storie hanno generalmente al centro uomini con una certa esperienza (e spesso un fondo di depressione)? Si può vedere in Clotilde una sorta di ‘alter ego’ pacato e ‘normale’ della Lisbeth Salander di Stieg Larsson?

Non direi che Clotilde si possa paragonare ai personaggi femminili di Larsson e in generale dei numerosi romanzi gialli recentemente scoperti e importati dalla Scandinavia (verso i quali confesso di non nutrire una particolare simpatia: mi sembrano sostanzialmente tradizionali e… freddi).

- Si sente più un giallista o un evocatore di memorie incastonate nel paesaggio?

La scommessa della mia scrittura sta proprio nel fatto che la trama giallistica non è l’elemento essenziale: sono convinto che oggi un romanzo, indipendentemente dal colore con cui vogliamo dipingerlo (per comodità? per pigrizia?), debba suscitare non tanto ammirazione per la correttezza spietata della sua costruzione logica, quanto per l’umanità che traspare e traspira dai fatti narrati; che l’impegno sociale consista nel presentare il mondo com’è e come possa essere patito o contrastato da un personaggio vivo e vero; che in generale la narrazione non abbia “doveri” extranarrativi (non sopporto di sentir elencare, alla Sartre, i doveri dello scrittore) ma abbia soprattutto dignità e rispetto verso se stessa.

- Sorprende (in positivo) la semplicità del suo linguaggio, in un autore dalla profonda formazione filosofica. Si può dire che le sue storie si articolino sulle frequenze di una linea di pensiero ‘epicurea’?

Il linguaggio che uso nei miei romanzi è un linguaggio non artificiale, è il linguaggio dei “parlanti”, non ha bisogno di dizionari per arrivare al cuore e al cervello del lettore, che va rispettato nella sua “normalità”. Penso che il linguaggio non debba servire a “colpire” il lettore, a épater le bourgeois, ma a comunicare, certo dignitosamente ma non intellettualisticamente, quel che si ha da comunicare. Il linguaggio è ciò che ci rende umani, non dimentichiamolo.

- La sua scelta, da napoletano, di venire a vivere a Firenze ha influito e influisce sulle sua scrittura? E quali sono, a questo proposito, i suoi nuovi progetti?

La mia scelta di vivere a Firenze ha motivazioni soprattutto esistenziali, non d’ispirazione artistica. Chiedo a Firenze di poter vivere in pace per poter dedicarmi con meno affanno al piacere della mia vita, la scrittura.



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