Intervista a Chiara Vitetta, autrice di Apri gli occhi

Creato il 24 giugno 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

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Cari lettori colorati pubblichiamo oggi un´intervista all´autrice Chiara Vitetta la penna di Apri gli occhi che vi abbiamo giá recensito. Andiamo dunque a conoscere meglio la scrittrice e la sua opera con una chiacchierata che svelerá tante piccole curiositá.

1) Da aspirante scrittrice, sempre alla ricerca dello spunto, della trama, la prima domanda è forse scontata: Come scegli un soggetto intorno al quale costruire un romanzo, e in particolare questa vicenda, che si snoda attorno a due personaggi peculiari?

Per quanto riguarda lo spunto, di solito non devo sforzarmi molto. C’è sempre un’idea, un’immagine o un personaggio che mi tormentano piacevolmente chiedendo di essere trasferiti sulla carta. Non so da cosa dipenda, ma ci sono alcuni argomenti che mi affascinano o alcune immagini che mi piacciono molto e che mi scatenano l’idea per una storia. Capita spesso che si tratti solo di un piccolo spunto, a volte una singola immagine che mi continua a tornare in mente nei momenti più impensati. Il lavoro viene dopo, quando decido di costruire attorno a quella piccola scintilla un intero fuoco. In quel caso cerco di immaginare e ragionare al contempo fino ad ottenere tutta una trama che sia sufficientemente originale, che funzioni al meglio e che mi appassioni. Il processo può durare giorni, settimane o mesi. Un tempo scrivevo di getto, basandosi solo su uno scheletro essenziale di storia, da qualche anno invece sento la necessità di sviluppare molto più dettagliatamente trama e personaggi prima di iniziare a scrivere; forse perché le storie che scrivo oggi sono più complesse o magari perché rispetto a quando avevo vent’anni, la mente risulta molto meno sgombra e concentrarsi appare più difficile.

Apri gli occhi è l’ultimo romanzo che ho scritto di getto avendo solo quello scheletro essenziale di cui parlavo prima. La prima scintilla è stata una chiacchierata amara con un’amica i cui sogni sono difficili grossomodo come i miei. Voler essere una scrittrice di mestiere in un paese come l’Italia di questi tempi è davvero una follia, così scherzavamo immaginandoci in un futuro in cui l’unica cosa rimasta da fare sarebbe stato ancheggiare su un marciapiede e vendere il proprio corpo. Naturalmente si trattava di un ironico, amarissimo discorso, tipico di chi vive un momento di sconforto ma piuttosto che accucciarsi in un cantuccio e piangere, sfrutta una sorta di umorismo nero per tentare di dimenticare un’ipotesi tragica. Dopo quel discorso ho iniziato a chiedermi: e se ci fosse una donna con un sogno difficile che si trova sola e nelle condizioni di non potersi neppure mantenere con un lavoro qualunque? Molti libri nascono dai se; quelle sono le vere scintille che accendono il fuoco di una storia.

Mi piace molto quando un romanzo è costruito sui personaggi, più che su cosa accade. Trovo che le persone siano ciò che di più interessante esiste al mondo. Il genere umano è vario, sorprendente e spesso sconvolgente, nel bene e nel male. Accadono diverse cose in “Apri gli occhi”, ma ciò che più conta sono proprio i due protagonisti, Rebecca e Matteo, persi nelle loro vite difficili e schiacciati da una dura realtà. Il loro incontro è il punto centrale del libro, un momento in cui due solitudini sfumano in un’amicizia necessaria. Rebecca è ispirata a me, o meglio, ad una parte di me. Penso che in tutti i libri, in fondo, ci siano tratti dei personaggi che appartengono all’autore. Viene spontaneo, e a volte è inconscio, ma comunque è logico che sia così: penso che scrivere sia parlare di sé, anche se attraverso una storia inventata. Ho creato Rebecca e le ho riversato addosso le mie paure e la mia rabbia esasperando alcuni aspetti della sua vita, come il suo “mestiere” o la tragicità del suo rapporto con gli editori. Rebecca scrive, dipinge, scolpisce ed ama l’arte e i film, come me. Sono tutte passioni che coltivo da anni e che mi è venuto spontaneo associare a questo personaggio. Anche Matteo ha qualcosa di me: in questo caso ho esasperato la mia parte arrendevole, quella che di tanto in tanto vorrebbe avere la meglio su quella forte e fermarsi di fronte ad una qualunque delle tante difficoltà. Matteo è uno scrittore mancato la cui vita si è persa dietro le difficoltà. È finito a vivere per strada, non importa in quali circostanze, raggiungendo un punto molto basso della sua vita. Dato il “mestiere” di Rebecca, mi sembrava logico scegliere come suo amico un personaggio che conoscesse un certo tipo di vita e che lei avesse modo di incontrare frequentemente per la strada. Che Matteo fosse un clochard era un punto fermo in base al quale, andando a ritroso, ho costruito tutto il personaggio.Ho trovato l’idea di parlare di personaggi come questi molto affascinante: calarmi nei lori panni per rendere credibile la storia è stata una sfida che ho colto con piacere. Poi, una volta creati Rebecca e Matteo, il resto è venuto di conseguenza.

2) Matteo è un clochard, e Rebecca è una prostituta. Dalle tue parole non traspare mai un giudizio sulle loro “non-scelte” di vita e, soprattutto, cosa che ho apprezzato molto, non sei mai scivolata nel grottesco, nemmeno parlando di Matteo che, per forza di cose, non è particolarmente pulito. Ti sei ispirata a dei personaggi in particolare, realmente esistenti o presi dalla letteratura?

Non mi sono ispirata ad alcun personaggio esistente o fittizio, Rebecca e Matteo sono frutto della mia fantasia. Naturalmente ci sono quelle somiglianze con il mio carattere di cui parlavo prima, ma più che ispirazione, le considererei un modo per rendere reali i personaggi secondo il principio: “Scrivi di ciò che conosci”. E poi, come dicevo, di solito viene spontaneo mettere se stessi in una storia che si scrive.Ho tentato di non giudicarli ed all’inizio è stato difficile, perché non condivido le loro scelte estreme, ma man mano che veniva fuori il loro carattere è diventato facilissimo perché li ho amati per la loro dolcezza, la loro genuina sincerità e le loro umane debolezze.

3) Ho letto la conclusione del romanzo – della quale ovviamente non dico nulla – come un messaggio di speranza, una sorta di “passaggio di testimone” tra i due personaggi. Tra Matteo e Rebecca – questo posso dirlo – non c’è nessun contatto fisico diretto, nessun gesto d’amore. Si tratta di una scelta che ho apprezzato molto, ma che non sono riuscita a motivare. Puoi dirmi di più?

Per prima cosa posso dirti che se fossi stata dall’altra parte, cioè al posto del lettore e non dello scrittore, non avrei voluto leggere di una storia d’amore tra Rebecca e Matteo; sarebbe stato troppo banale. Insomma si tende a scrivere il libro che si vorrebbe leggere, ma non è l’unico motivo. Quando la scrittura va bene e la storia prende piede, ad un certo punto comincia a scriversi da sé. Non sapevo come sarebbe andata a finire, non sapevo cosa sarebbe successo tra di loro. In un certo senso anch’io sono stata a guardare, come un qualunque lettore. I personaggi hanno preso vita e fatto le loro scelte. Semplicemente, non hanno voluto avvicinarsi più di quanto abbiano realmente fatto. Rebecca, in particolare, ha uno strano rapporto con quel corpo che ogni giorno vende per sopravvivere. Non lo sente più, non ha più senso per lei; Rebecca è soltanto parole e tratti di pennello su una tela; lei è solo la sua arte, è come se un corpo ormai non lo avesse più, ecco perché le sue dimostrazioni d’amore per Matteo non hanno nulla di fisico.

4) Il romanzo è denso, densissimo di riferimenti intertestuali che rendono la lettura ancora più interessante, e che invogliano a vedere altri film, conoscere nuovi libri. Hai citato determinati titoli per il loro contenuto, o perché sei particolarmente legata ad essi?

Mentre scrivevo, i collegamenti sono stati automatici. Si trattava comunque di libri, film o quadri che ho amato o che avevo visto o letto per la prima volta in quel periodo. In alcuni casi contava il contenuto, altri rappresentavano un modo per far conoscere a fondo il carattere dei personaggi attraverso ciò che avevano amato ad esempio in un film; altri ancora erano pressoché casuali e servivano a portare equilibrio e realismo in mezzo a tante opere che Matteo e Rebecca citano ed amano. Questo accade ad esempio quando Rebecca legge “Fumo”, di Faulkner, un libro che non ho amato molto e che appare solo come una sua lettura in corso.Comunque sono particolarmente legata a molte opere citate, ed attribuire lo stesso legame a Rebecca o Matteo mi è venuto spontaneo. Tra le altre cose, serviva ad infondere ai dialoghi la passione verso certi film o quadri e come tutti potete ben immaginare, se la passione è reale, farla emergere è molto più facile e divertente.

Chiara Vitetta allo stand della Edizioni del Poggio all’Expolevante 2009

5) È azzardato dire che hai inserito riferimenti anche per invogliare chi legge a conoscere il buon cinema e l’arte?

No, non è azzardato, ma è una motivazione marginale. Mi piacerebbe molto sapere di aver spinto qualche lettore a guardare ad esempio “Big Fish – Storie di una vita incredibile”, oppure a sfogliare un libro di storia dell’arte alla scoperta degli impressionisti o del surrealismo di Magritte e Dalì, ma principalmente mi piace parlare d’arte perché ne sono appassionata. Amo molto il cinema, i quadri, le sculture, l’architettura ma soprattutto i libri. Non penso che la mia vita avrebbe senso se fosse priva del godimento di queste forme d’arte.

6) Nella mia recensione ho usato l’aggettivo “postmoderno”, probabilmente perché, da studentessa di Storia dell’arte contemporanea, mi imbatto spesso nell’uso della citazione, e mi è venuto spontaneo parlare di “postmodernità”: qual è il tuo rapporto con la citazione, sia di altri testi, sia di sé stessi?

Al di là dei riferimenti, è infatti Matteo che racconta la storia, la scrive, si autocita, ripete i propri pensieri. Cosa significa, oggi, citarsi e citare, e ritornare a riflettere su altri contenuti? Autocitarsi non mi fa impazzire, infatti l’ha fatto Matteo, non io! …scherzo, naturalmente. Autocitarsi, quando si fa con umiltà, può essere semplicemente un modo per ribadire un concetto espresso al meglio nel passato. Quando si trova una sorta di “formula perfetta” per esprimere un concetto, specie se si tratta di qualcosa di complesso, autocitarsi è come imboccare una scorciatoia e non sempre la strada più lunga è la migliore, non è vero? Per Matteo autocitarsi è un modo per guardare dentro se stesso. Non dimentichiamo che è un solitario che si è emarginato da sé scegliendo di vivere per strada, senza contatti con nessuno, o quasi. Il suo unico amico, Antonio, che appare poche volte nel libro, ha con lui un rapporto di tacita intesa, uno scambio muto di comprensione tra due emarginati.

Per quanto riguarda la citazione di altre opere, per me risulta quasi irrinunciabile. Noi tutti nominiamo, citiamo o facciamo cenno a ciò che ci ha formati; e lo facciamo pressoché ogni giorno. Se c’è una figura che è stata fondamentale nella nostra infanzia, ci troveremo spesso a dire: “Mio nonno diceva che…” o “Mia madre lo diceva sempre!”; se da ragazzini amavamo i fumetti di Paperino, è probabile che in qualche occasione scherzosa tireremo fuori ad esempio un modo simpatico con cui Paperon de’Paperoni chiamava il nipote o ricorderemo una scenetta divertente tra loro. Potrei fare centinaia di altri esempi analoghi, ma credo che basti.

La mia formazione, da ragazzina come da adulta, anche se in modo diverso, è sempre passata attraverso l’arte. Siamo ciò che amiamo, in fondo; non per niente in genere scegliamo come amici quelli che in qualche modo ci somigliano. Sono cresciuta in mezzo all’arte e per me è irrinunciabile. Poche cose mi appassionano come gironzolare tra le sale di un museo in mezzo alle tele o ingozzarmi di parole rimanendo a leggere anche per quattro, cinque ore filate. Quando si ama tanto qualcosa, quel qualcosa ci forma, fa parte di noi e citare un’opera che ci ha toccati diventa inevitabile.

Chiara Vitetta http://www.chiaravitetta.it/

Giulia Chevron http://devoandarealggere.blogspot.it



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