Marcel Proust ha detto:“La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli”. Quanto ritieni che tale affermazione possa essere consona al nostro paese, non sempre particolarmente attento alla salvaguardia e al mantenimento di un immenso patrimonio artistico/culturale e di conseguenza alla valorizzazione della bellezza, nelle sue varie accezioni ed implicazioni?
Oggi qualsiasi attività umana sembra trovare significato soltanto nella sua risonanza economica e ciò comporta una perdita di sensibilità verso la gratuità, quelli che in una mia opera definisco “i trascendentali”, cioè i valori di verità, bene bellezza. Il riferimento prevalente è quello del bisogno soggettivo e del suo appagamento, l’approccio è funzionalistico e tecnico, per cui in tale ordine di cose la bellezza perde diritto di cittadinanza. Certo, abbiamo avuto altri paradigmi in passato, ma questi concedevano maggiore attenzione al bello, al vero: penso alla dominanza della teologia, poi della filosofia, della scienza, mentre ora l’economia rischia d’appiattire in senso orizzontale e funzionalistico l’atteggiamento verso il mondo, che diventa simile a quello di uno schiavo, di colui che esercita una funzione meramente operativa, designato dalla stessa, e quindi interscambiabile. Manca l’anima, il “mondo dentro”, la consapevolezza dell’uomo libero e in tale ambito i beni culturali, nel senso più profondo e denso del termine, perdono quota, diventano clichés.
Vi è un consumo di cultura, ma questa è identificata secondo facili stereotipi indotti dalle grandi multinazionali: il pubblico non comprende d’essere oggetto di pressioni enormi, legate ad interessi di mercato (quello dell’arte, editoriale, musicale), non sceglie più liberamente, ma quasi sotto ipnosi, personaggi, oggetti, esperienze che fanno tendenza, e in realtà generano consumo e alimentano il mercato. In questo clima la bellezza muore, si degrada, lo vediamo nel turismo di massa, nelle città abbruttite dall’indifferenza e dalla scarsa attenzione ambientale/edilizia, così come nell’atteggiamento estetico delle persone, che al massimo usano il corpo come strumento di seduzione, ma sono incapaci d’esprimere una bellezza o un’eleganza profonda.
Il problema è piuttosto ampio, e in Italia si associa alla crisi di un senso d’appartenenza, anche connesso alla fragilità della sua classe politica: non sentiamo più d’essere parte d’una comunità lanciata verso la condivisione di valori, ciascuno fa parte per sé, col risultato che i beni comuni vengono abbandonati a loro stessi, quando non li mettiamo in vendita a cinesi, russi, arabi, espropriandoci così di un patrimonio dal valore incommensurabile”.
Abbracciando la multidisciplinarietà come linea guida, nel corso degli anni hai delineato un personale percorso incentrato su determinate manifestazioni artistiche (le canzoni concerto confluite nel progetto web di Working Class, da poco inserito in un cofanetto di 5 dvd) e letterarie (le poesie di Giovinezza addio. Diario di fine 900 in versi e Nugae Nugellae, Lampi), così come su riflessioni esistenziali/filosofiche volte ad indagare il pensiero moderno, anche nelle sue confluenze spirituali/religiose (The Gift.Il Dono; Il pane e i pesci; I trascendentali traditi) ed estetiche, vedi l’attuale mostra. E’possibile tracciare un fil rouge che unisca tutto ciò in un discorso univoco ma non totalizzante, mantenendo le caratteristiche delle singole esternazioni?
Non si trattava tanto di operare in modo efficiente, d’impadronirsi di una tecnica relativa ad un ambito limitato di realtà, ma di acquisire una familiarità con un mondo interiore, con una serie di riferimenti i quali costituivano una visione della vita, quindi anche una proposta di valori, di direzioni valide per il cammino. Tutto ciò oggi viene quasi completamente a mancare, ed io al riguardo sono invece andato un po’ in controtendenza, verso un approccio globale, non qualcosa d’ enciclopedico (conoscere tutto per necessità), ma una metodologia multiforme: infatti, è molto più interessante cambiare metodo che mutare idea, vedere le cose da diversi punti di vista, come quello filosofico, musicale, visivo, spirituale … Ciò permette di desituarsi continuamente rispetto ad una visione univoca del mondo e di cogliere cose diverse. Infatti sostengo, per esempio, che se non mi fossi dedicato, attraverso i miei studi sulla canzone d’autore, alle lezioni concerto come espressione di una musicalità live, interpretativa, probabilmente avrei pensato in un altro modo.
Nel pensiero razionale, dicotomico, si tende a procedere in modo binario (vero/falso, giusto/ingiusto), mentre nel momento ermeneutico dell’interpretazione si propende alla sintesi, alla mediazione, e questo mi ha aiutato in ambito filosofico, a cogliere punti di vista diversi come conciliabili, anche perché sono convinto che oggi non sia possibile tornare ad una proposta univoca, chiedere ad altri che si adeguino semplicemente al nostro mondo di valori, al nostro universo simbolico. Quello che possiamo fare, invece, è cercare d’elaborare un nuovo paradigma, che sia flessibile e dinamico, capace di dialogo ed interazione, in grado di generare scambio e armonia.
L’esperienza ermeneutica, cioè di interpretazione della realtà con mezzi diversi, è un po’ il fil rouge della mia proposta, che mira a stabilire le condizioni teoretiche e di sensibilità più idonee a raggiungere il maggior grado di universalità possibile nell’ambito della condizione umana contemporanea”.
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Le foto a corredo dell’intervista, che ritraggono Claudio Sottocornola e lo scrivente durante l’inaugurazione della mostra “Il giardino di mia madre e altri luoghi” sono di Valerio Pascale.